La vera legge Basaglia. di Giovanni Rossi

Basaglia aveva freddo in quel dicembre 1979. Mi chiese di indicargli dove comprare un pullover. Lo accompagnai da Marco boutique in piazza delle Poste.

Era a Mantova per partecipare ad un convegno: “Le nuove istituzioni della psichiatria” in cui si sarebbe discusso di chiusura dei manicomi e nuovi servizi.

Franco Basaglia, veneziano, somigliava ai campanili e alle torri di segnalazione che danno verticalità all’orizzonte piatto della laguna.

Da lontano un punto di riferimento, che tuttavia ti avvicinava, alto ma non imponente, e, in men che non si dica ti coinvolgeva divenendoti familiare, attraverso il gesticolare e la parlata che distinguono il veneziano dal veneto, come l’acqua dalla terra .

Quelli della mia generazione che raggiungevano Trieste, dove si stava chiudendo il manicomio, entravano certo in contatto con una straordinaria esperienza collettiva di trasformazione, ma anche con la formidabile forza positiva di un instancabile Franco Basaglia. Andava ben oltre il libro : l’isituzione negata che pure letto da liceale, assieme al Freud de l’interpretazione dei sogni, mi aveva convinto a diventare psichiatra

Non immaginavo mentre lo accompagnavo per le vie di Mantova che fosse già consapevole della malattia che dopo pochi mesi l’avrebbe vinto. Lo aveva confidato ad Evelina Soregotti, allora infermiera allo Psichiatrico di Dosso del Corso.  Basaglia conversando con Evelina si mostrò preoccupato di come sarebbe stato il dopo manicomio. Perché non bastava chiudere, ma bisognava anche sapere che cosa aprire. Rammaricato per non poter contribuire al superamento dell’unico manicomio che non era stato toccato dalla legge 180, quello giudiziario di Castiglione delle Stiviere.

Franco Basaglia era nato l’11 marzo 1924, da una famiglia benestante. A vent’anni sperimentò per alcuni mesi il carcere della Repubblica sociale italiana. Era accaduto che assieme all’amico Alberto Ongaro venisse scoperto a distribuire volantini antifascisti. Perdita della libertà di esprimere il proprio pensiero e perdita della libertà di movimento vennero a coincidere nel carcere, di cui negli anni avrebbe ricordato l’odore,

Sulla terraferma a pochi chilometri dalla casa sul Canal Grande, sta l’antica università medica patavina. Franco vi si laureò nel 1949 ed iniziò a frequentare la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali.

Aveva 37 anni quando venne confinato a Gorizia. Allontanato dal mondo universitario padovano, che mal tollerava quel giovane psichiatra più interessato a comprendere l’uomo attraverso la fenomenologia che a sezionare il cervello o gestire il potere accademico.

Lo accompagnava Franca, la sorella di Alberto Ongaro, che Basaglia aveva sposato nel 1953. E con lei i bambini. Enrico di 8 anni ed Alberta di 7.

Gorizia nel 1961 era frontiera blindata, essendo sul limite della cortina di ferro.

Di là, sulla facciata della stazione ferroviaria, sulla linea che aveva collegato Vienna al porto di Trieste ed all’Oriente, campeggiava la scritta :” Stiamo costruendo il socialismo”.

Di qua le porte chiuse del manicomio, di cui Basaglia era il nuovo Direttore.

Entrandovi aveva percepito lo stesso odore che c’era in carcere.  Come ebbe a dire : ” non c’era l’odore di merda, ma c’era come un odore simbolico di merda”.

Accettare lo status quo? Da confinato divenire il Re confinante dell’umanità rinchiusa in quel pezzetto di mondo separato.

Oppure?

“Mi no firmo” disse al capo degli infermieri che gli porgeva il registro delle contenzioni.

Di questa frase si è sempre sottolineata la negazione. Il no che mandava in cortocircuito la regola manicomiale.

Non ci si è invece soffermati con altrettanta attenzione sulla lingua utilizzata. Il dialetto. La lingua sicuramente più familiare agli infermieri ed ai pazienti.

Da una lato dunque la presa di distanza dalla regola del controllo manicomiale, dall’altro l’apertura al dialogo attraverso l’uso del dialetto.

C’è un passo de “I giardini di Abele” il documentario che Sergio Zavoli girò nel manicomio di Gorizia molto significativo.

Il giornalista chiede “Ma lei professor Basaglia è interessato più al malato o alla malattia?” lo psichiatra veneziano risponde: “Decisamente al malato”.

In ciò sta la rivoluzione basagliana.

Si inoltrava per una strada nuova, l’assemblea, non da solo, ma con  tutti  malati, infermieri, medici, visitatori. Tutti con diritto di parola.

E poi dopo  Gorizia e “L’istituzione negata, sarebbero venute Parma  e “Che cos’è la psichiatria”, e ancora Trieste il cui manicomio venne chiuso/aperto nel 1977, prima della legge 180.

La legge che nel maggio del 1978 dispose il superamento dei manicomi, indicando la necessità di attivare nuovi servizi che si occupassero della cura della salute e del disagio mentale e non più di custodire i cosiddetti malati.

Nel 1979 quando Basaglia venne a Mantova già si discuteva di una modifica della legge, esattamente come si è continuato a fare sino ad oggi.

L’amministrazione della Provincia di Mantova, che si accingeva a trasferire i servizi psichiatrici alla neonata Unità Sanitaria Locale promosse il convegno “Le nuove istituzioni della psichiatria”. Basaglia, che nel frattempo aveva lasciato la periferica Trieste per trasferirsi a Roma a coordinare i servizi psichiatrici del Lazio, partecipò alla tavola rotonda “Verso una modifica della legislazione psichiatrica?”

In quello che fu uno dei suoi ultimi discorsi pubblici pose due questioni che sarebbero state dirimenti rispetto all’esito della riforma. E che ancora oggi attendono risposte.

Il problema della formazione degli psichiatri e degli operatori : “L’università oggi dice che ha bisogno del reparto perché deve insegnare; ed è evidente come sia reazionaria questa visione della medicina, della psichiatria che vede nel letto, nel ricovero, nell’internamento la possibilità di insegnamento agli studenti. Ebbene io penso che questo sia totalmente sbagliato, l’università non deve avere letti ma dovrebbe creare le strutture scientifiche a livello territoriale. Il problema della formazione per me è uno dei problemi fondamentali per l’applicazione della legge, perché se avremo dei tecnici che sanno quello che fanno, potremo applicare la legge; se avremo dei tecnici che difendono la corporazione medica, la legge non potrà essere applicata”.

La riforma richiedeva non solo strutture ma culture adeguate. Era necessario cioè che la formazione degli operatori, soprattutto quella universitaria si mettesse in pari con i principi della curabilità, della integrazione territoriale, della relazione con il sociale.

La seconda questione riguardava la politica che aveva a disposizione, non più ideologie ma esperienze pratiche su cui basare le proprie decisioni.

“Altro problema essenziale, oltre a quello della formazione, è il problema della volontà politica. E’ il problema della riforma psichiatrica e della riforma sanitaria  : oggi tutti noi tecnici e politici riceviamo continuamente delle proteste da parte dei familiari perché devono tenersi il nonno demente o il figlio folle a casa, senza nessun aiuto. Ebbene io dico che questi familiari hanno perfettamente ragione, sono persone che devono avere una risposta alla loro domanda di assistenza… Noi dovremo creare dei centri , delle istituzioni di aggregazione che diano di volta in volta una risposta diversa alla persona…non possiamo limitarci a dire che i manicomi non ci sono più.”

Pochi mesi dopo, nell’agosto della strage di Bologna, Franco Basaglia ci lasciava. Aveva 56 anni.

Da allora tutti, estimatori e detrattori, gli intitolarono la legge che divenne la legge Basaglia. Incuranti del fatto che la 180 aveva avuto durata brevissima, essendo stata assorbita nel dicembre del 1978 dalla legge 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale.

Ma cosa pensava Basaglia della legge? 

Le riconosceva  la chiarezza con cui stabiliva “la necessità di non costruire più ospedali psichiatrici e di progettare l’eliminazione di quelli esistenti”, anche se era molto scettico sui tempi di realizzazione. Ed aveva ragione infatti per chiuderli ci vollero 22 anni.

Anche riguardo alla realizzazione dei nuovi servizi non si faceva illusioni. Certo il fatto che un ricovero obbligatorio potesse essere evitato se vi erano soluzioni alternative era un passo nella direzione giusta, ma si chiedeva “A chi la responsabilità  della inesistenza di soluzioni differenti?”.

Una domanda del tutto attuale direi.

Mi piace pensare, innanzitutto, che se esiste una legge Basaglia, essa appartenga tanto a Franca quanto a Franco. Racconta Alberta Basaglia :” La prima volta che mio padre si affacciò sul manicomio di Gorizia ebbe una reazione di rifiuto. Non resse alla vista dei corpi umiliati, al puzzo lancinante. E fu grazie al sostegno di mia madre che scelse di restare. E di dare vita a quel lavoro che avrebbe restituito corpo, voce e dignità ai malati».

E poi che così possa essere enunciata “ Le persone vengono prima. Ogni cura deve essere progettata con il loro consenso e la loro partecipazione. Scienza ed esperienza devono convivere ed alimentari a vicenda. Le istituzioni  devono sapersi inventare per adattarsi alle persone ed al variare dei loro bisogni e non viceversa”.

Giovanni Rossi

fonte: Gazzetta di Mantova

Print Friendly, PDF & Email