I cinque referendum sulla giustizia hanno realizzato la partecipazione più bassa nelle consultazioni referendarie e se non ci fosse stato il traino delle elezioni amministrative si sarebbe andati sotto il venti per cento. Il 12 giugno rimarrà una data storica, per la dimensione del non voto, non organizzato e non sollecitato come accadde con l’invito di Craxi in occasione del referendum sulla preferenza unica e l’ordine protervo del cardinale Ruini in occasione di quello sulla fecondazione assistita.
Certamente è una drammatica conferma della crisi della politica e quindi della partecipazione. Di più. E’ il segno di uno scollamento delle istituzioni con il sentimento diffuso della società, civile o no che sia.
Ricercare giustificazioni nella scarsa informazione, nel voto limitato a una sola giornata, nel disimpegno dei partiti e via cantando dà solo la misura della pochezza intellettuale dei promotori.
Sono convinto che sia stata determinante la consapevolezza, che ha agito come un fiume carsico, di essere di fronte a una contraddizione sesquipedale. La Lega di Salvini, caratterizzata dalla bandiera del panpenalismo e dalla lotta allo stato di diritto, si ergeva con la promozione dei referendum come alfiere della giustizia giusta.
In politica, anche nella vita, le contraddizioni possono essere felici se producono un cambiamento nelle idee e nei comportamenti.
Se invece della scoperta del garantismo, la Lega ha continuato a mostrare in questi mesi il volto feroce contro i diritti civili, a esercitare un volgare ostruzionismo in Parlamento contro le proposte relative a una mitigazione della legge criminogena sulle droghe, al diritto costituzionale alla affettività in carcere, allo ius scholae, a una norma umana sul fine vitae, non deve stupire il riflesso di puro buon senso di chi ha sentito il puzzo del gioco delle tre carte. E giustamente ha detto: Io non ci sto.
Questo esito catastrofico di Salvini rischia di provocare un danno collaterale tremendo. La convinzione cioè della sconfitta definitiva del referendum, di un istituto fondamentale per la legittimazione del potere.
Questo esito è stato anticipato dalla decisione della Corte Costituzionale del febbraio 2022 di non ammettere al voto il referendum sulla mitigazione delle sanzioni previste dalla legge antidroga per la canapa e sull’eutanasia.
La decisione rivendicata da Giuliano Amato, oltre che avere il sapore di natura tutta politica, è stata causata da un errore di lettura e interpretazione della legge Iervolino-Vassalli e da una violazione dell’art. 75 della Costituzione sulle materie vietate per i referendum, facendo prevalere un giudizio di costituzionalità del testo risultante dal voto popolare.
Che fare dunque? Riprendere subito la campagna per la raccolta delle firme per referendum che appassionino uomini e donne, i giovani esclusi dalle decisioni per far sentire i cittadini protagonisti nelle scelte decisive per la vita.
Il Governo deve mantenere la parola e garantire una piattaforma per raccogliere le firme senza farraginosità burocratiche. Soprattutto occorre riformulare la legge sui referendum per eliminare tanti lacci che limitano la presentazione dei referendum nell’anno prima e dopo le elezioni e soprattutto prevedere che i referendum si possano svolgere contestualmente alle elezioni politiche.
Infine è ineludibile un confronto politico e costituzionale sui poteri senza limiti che la Consulta si è attribuita negli anni per bocciare tanti referendum che avrebbero consentito di far trionfare una politica diversa.
La Società della Ragione ha in programma a settembre un seminario con giuristi, militanti e politici proprio su questo tema.
fonte: L’Espresso