Anche se nel nostro Paese, a differenza di altri Stati europei, i manicomi sono stati chiusi, la questione psichiatrica non è ancora risolta. Essere paziente psichiatrico significa essere un malato diverso dagli altri, e con meno diritti. MELISSA AGLIETTI
In Italia, però, ci sono anche 21 servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) che aderiscono all’associazione “Club SPDC no restraint”. Si tratta di reparti in cui le persone non vengono legate, dove non c’è contenzione farmacologica e le porte sono aperte: dimostrano che un altro modo di fare è possibile. Ma soprattutto sono reparti che funzionano e in cui, come spiega a Rolling Stone il presidente Giovanni Rossi. «Si agisce sulla prevenzione e si organizzano gli spazi», senza alzare il costo del servizio. «Se faccio passare il messaggio che nel luogo in cui sarà accolta una persona ci saranno barricate ed elmetti calati sulla testa, allora lei si preparerà a combattere. L’aggressività, invece, va smontata: la persona va accolta in una stanza tranquilla ma abbastanza ampia perché nessuno si senta costretto e va consentita la presenza di familiari e amici. Bisogna, poi, presentare il reparto e ricordare al paziente che si tratta di una situazione transitoria, destinata a finire». Perché la contenzione, come racconta la cronaca, è una pratica che come effetto collaterale ha la morte. Tanto che il ministero della Salute punta alla sua abolizione dai luoghi di cura della salute mentale entro il 2023. Ma il documento, approvato dal ministro Roberto Speranza, è ancora al vaglio delle istituzioni.
Contenere resta una pratica che si fa ma non si racconta, tanto da non essere nemmeno registrata nei documenti ufficiali. «Nel pensiero comune, si pensa che le pratiche manicomiali in Italia siano finite», dice a Rolling Stone Giovanna Del Giudice, portavoce della campagna “E tu slegalo subito”, che chiede l’abolizione della contenzione nei servizi socio-sanitari. «Ma a quarant’anni dalla legge 180, si continua a legare. Eppure abbiamo evidenze scientifiche degli esiti negativi della contenzione, sia a livello fisico, per effetto della compressione delle fasce, che psicologico. Le persone che vengono legate sono poi anche quelle più a rischio di nuove contenzioni perché tendono a riprodurre atteggiamenti aggressivi. È un meccanismo che si autoalimenta». Spesso, a chi è legato non viene dato né da mangiare, né da bere. Nella maggior parte dei casi, chi subisce contenzione pensa addirittura di averla meritata. «La contenzione non è un farmaco placebo, fa dei danni», aggiunge Rossi. «E fa dei danni anche agli operatori che la effettuano, che si sentono inadeguati e incoerenti rispetto alla professione che pensavano di dover esercitare».
La contenzione di rado fa notizia, ma quando succede è in grado di scuotere l’opinione pubblica. Come nel 2006, quando i giornali denunciarono la morte di Giuseppe Casu, lasciato per sette giorni legato al letto del reparto psichiatrico dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari. All’epoca, Del Giudice, che ha iniziato a lavorare come psichiatra a Trieste nel 1971, era direttrice del dipartimento di Salute Mentale del capoluogo sardo da tre mesi. «È stata la prima situazione in cui l’istituzione ha avviato addirittura un processo di cambiamento e non ha lasciato sommersa quella morte da contenzione», spiega Del Giudice. «Negli ospedali italiani, però, ci sono ancora letti cementificati nel pavimento che vengono usati per la contenzione. Durante la pandemia, in un Spdc del Nord Italia, i pazienti venivano, invece, legati per tutto il tempo di attesa di risposta del tampone. Siamo lontani, evidentemente, dalla presa in carico, dalla cura e dall’accoglienza».
I motivi per cui negli Spdc si continuano a usare cinghie e lacci sono tanti. Legare un paziente “difficile” e lasciarlo solo sul letto, abbandonato, senza che possa disturbare gli altri malati e il personale sanitario, è molto comodo, soprattutto in reparti depauperati di medici, infermieri e operatori socio sanitari come quelli psichiatrici. «La contenzione è una scorciatoia di fronte a una situazione complessa», spiega Del Giudice. «Invece di cercare di decodificare la domanda e farsi carico della sofferenza dell’altro si ricorre a questa pratica. Che è un trattamento non terapeutico, inumano e degradante, assimilabile alla tortura». Ma c’è anche un motivo culturale. «Non è stato ancora messo in discussione il paradigma della pericolosità dell’altro quando è portatore di sofferenza, così come non si discute la cultura dello scarto», racconta Del Giudice. C’è poi quello che Rossi definisce «un dato genetico legato all’esistenza stessa della psichiatria». «È l’imperativo “cura oppure custodisci”. La psichiatria contiene questa ambiguità: è un potere di controllo. Ma è un’ambiguità che con la democratizzazione della psichiatria si riesce a risolvere: si deve ristabilire il contatto fisico e per farlo ci vogliono persone, non cinghie di contenimento».
Anche se nel nostro Paese, a differenza di altri Stati europei, i manicomi sono stati chiusi, la questione psichiatrica non è ancora risolta. Essere paziente psichiatrico significa essere un malato diverso dagli altri, e con meno diritti. «I pazienti psichiatrici con il coronavirus non avevano nemmeno diritto a essere ricoverati nei reparti Covid», racconta Rossi. «Si lasciavano negli Spdc, senza dare loro tutti gli ausili necessari». Ma gli strumenti per superare la contenzione meccanica, fisica e sociale ci sono già e possono essere riassunti nell’arte di slegare le persone, dentro e fuori i reparti psichiatrici. «C’è bisogno di spazi attraversati dalla comunità», spiega Del Giudice. «Dalle porte chiuse si scappa, da quelle aperte si esce. Non è abbandono, ma consapevolezza che solo la libertà è terapeutica».
fonte: RollingStone