È importante ascoltare parole perentorie, che non cercano di compiacere, che con forza e passione vanno dritto al cuore delle questioni.
Quello di Giovanna Del Giudice è un canto di libertà.
La libertà è la scelta che accompagna l’azione politica e tecnica di questa psichiatra nell’ambito della salute mentale e non solo.
La libertà di cui parla Giovanna Del Giudice non è solo una libertà individuale. È anche e soprattutto una spinta emancipativa, un viaggio per la riappropriazione dei diritti, che coinvolge tutti.
Chi è Giovanna Del Giudice?
Mentre lo dice sfoggia un sorriso luminoso. È una bella donna.
È la domanda più difficile. È una domanda a cui sicuramente faccio fatica a rispondere.
Io sono le cose che ho fatto, le cose che faccio, principalmente. Ma anche quello che gli altri mi attribuiscono.
Io sono prima di tutto una donna che ha fatto fatica in particolare in giovane età, a uscire dagli schemi prefissati allora per le donne, in particolare nel sud dell’Italia dove sono nata. Sono nata nel ‘46 a Lecce, città che negli anni in cui io mi formavo e crescevo era una città estremamente chiusa, estremamente tradizionale, estremamente borghese. Certamente uno degli sforzi più intensi che ho fatto, che sono stata costretta a fare, in quel tempo, è stato quello di capire come intervenire nella mia vita per non sottostare agli schemi prefissati per me come donna. La questione dell’essere donna, come essere donna, accompagna la mia vita e la mia professione. Io credo che non c’è un modo neutro di essere anche nella professione, ma c’è un modo sempre di parte, anche legato al genere. In particolare le questioni che ho affrontato in quanto donna nella mia storia, e anche nella mia storia professionale, sono state come coniugare le relazioni con l’autonomia, la questione del potere -potere per fare, potere per determinare cambiamento-, il non determinare dipendenza, non costruire “corti” e cortigiani, ma autonomia ed emancipazione. Il creare corti avviene spesso nella gestione del potere degli uomini. Come coniugare e tenere insieme pubblico e privato.
Lei mi ha chiesto un gioco di rimandi. Per cui le do il primo rimando. Il suo non voler essere identificata con un genere astratto somiglia al mio non voler essere identificato soltanto con una mia parte, quella della tetraplegia. Oggi io scrivo prevalentemente sul tema dei diritti. Scrivere di disabilità per me significa guardare il mondo dall’altezza di un metro e venti, che è l’altezza che ho quando sono seduto in carrozzina. Ma da quell’altezza non vedo solo la disabilità, vedo il teatro, vedo i manicomi, vedo i migranti. E tutto questo voglio descriverlo insieme al mio quotidiano. Ma torniamo a lei. Che cos’è la Conferenza Basaglia di cui è presidente?
La Conferenza Basaglia è un’associazione che nasce a Trieste nel maggio del 2010, fondata dai primi di noi che sono andati in pensione, tra quelli arrivati a Trieste a lavorare con Franco Basaglia alla fine del ‘71 e nei primi mesi del 1972.
Con questa associazione guardavamo principalmente e prioritariamente alle relazioni internazionali, che il gruppo di Trieste aveva costruito negli anni.
L’associazione, di cui sono presidente dal 2013, ha valore perché non solo testimonia la storia della deistituzionalizzazione nella salute mentale e nella medicina in generale, e la propone come una storia che continua, ma anche perché è punto di riferimento per cittadini e cittadine, per operatori italiani oltre che internazionali, impegnati nell’area dei diritti umani.
A questa associazione guardano coloro che continuano a lavorare nei binari della deistituzionalizzazione e della lotta contro tutte le istituzioni totali. A questa associazione guardano coloro che in Italia lavorano sui diritti delle persone più fragili come a una esperienza che ha costruito cambiamento, come a un laboratorio, a uno spazio per sviluppare una riflessione e un pensiero critico.
La mission dell’associazione è essenzialmente quella formativa e di ricerca, ma anche quella di fornire équipe tecniche a territori, organizzazioni, governi… per avviare azioni trasformative in particolare nel campo della salute mentale e in generale dei servizi socio sanitari.
Abbiamo lavorato dalla Cina all’America latina. In questo momento c’è un rapporto molto significativo con l’Argentina, con cui Trieste ha un rapporto storico da anni.
Dal suo libro …e tu slegalo subito pubblicato con Alphabeta in cui racconta del suo lavoro a Cagliari, sembra emergere che fare della buona psichiatria oggi significhi più di tutto creare spazi di confronto e di dibattito culturale. Questa sembra essere la premessa essenziale per la cura e per avviare delle “buone pratiche”. È così?
Lei introduce il tema della politica. Io credo che la nostra azione nella salute mentale sia un’azione tecnica e insieme politica. È indubbiamente un’azione politica e anche di trasformazione culturale, di restituzione ad una comunità delle questioni su cui noi tecnici operiamo: la questione della salute, la questione della malattia, la questione dell’inclusione e dell’esclusione, della partecipazione e del protagonismo. Ecco queste azioni che nel nostro fare tecnico affrontiamo quotidianamente, non devono essere sequestrate dai tecnici e dalla scienza psichiatrica, ma devono essere restituite alla comunità perché la comunità se ne appropri. Perché la questione della salute mentale riguarda tutta la comunità, non è una questione soltanto dei tecnici, ma è questione in generale di una comunità.
Il lavoro a Cagliari è stato anche lavoro tecnico di intervento sui dispositivi organizzativi dell’assistenza psichiatrica, dell’assistenza alle persone con problemi di salute mentale.
Una delle questioni che fanno parte della mia formazione, del mio pensiero, è che nel nostro lavoro di tecnici della salute fondamentale è costruire dispositivi organizzativi, quindi nella salute mentale, Istituzioni inventate, alternative al manicomio nel paradigma fondante, nell’organizzazione, negli stili operativi, capaci di farsi carico dei bisogni di salute mentale di una comunità, nel rispetto della dignità, dei diritti dell’altro, dell’emancipazione, di una salute per tutti.
Dialogando con lei e con coloro che fanno riferimento a Basaglia si ha l’impressione che non sia soltanto la psichiatria ad essere responsabile di arroganza, ma che sia il sapere medico in generale a farsi interprete di un sapere arrogante? È così?
Io credo che lei abbia perfettamente ragione. Farei anche un passo un po’ più indietro. Noi siamo partiti da una visione del mondo diversa. Dove ci fosse possibilità e diritto per tutte e tutti, dove ognuno partendo dei propri bisogni potesse avere risposta, inclusione e diritti. Ecco, io credo che questa visione del mondo fosse fondamentale. D’altra parte quando noi arrivammo a Trieste nel ‘71 eravamo giovani medici appena laureati, ignoranti delle questioni del manicomio e della psichiatria. Avevamo invece una grande spinta, che derivava dalle lotte del Sessantotto, quella di cambiare il mondo e di impegnarci contro tutte le disuguaglianze, contro ilpotere gerarchico, le istituzioni totali, impegnarci tra l’altro partendo dai propri bisogni, dal bisogno di cambiamento di ognuno di noi.
La legge 180 sulla chiusura dei manicomi è stata una vera rivoluzione. Però ormai sembra pienamente applicata soltanto in Friuli Venezia Giulia? Le posizioni di maggioranza della Società Psichiatrica Italiana non sono quelle basagliane. La vostra sembra paradossalmente una posizione residuale.
Quella che lei chiama la rivoluzione basagliana, come la chiamano tanti altri, è figlia proprio di quei tempi, di quel contesto sociale e politico della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta del “secolo breve”. Dove sono state fatte le più grandi trasformazioni, non soltanto nell’assistenza psichiatrica. Io però non credo che sia stata una rivoluzione fallita.
Non parlavo di rivoluzione fallita ma piuttosto del fatto che la vostra attualmente sia una posizione marginale rispetto al panorama culturale attuale.
Faccio fatica ad accettare la parola residuale e marginale.
Credo che potremmo meglio parlare di noi come di una minoranza che oggi non è certamente egemone (e non lo siamo mai stati). Parliamo di minoranza in questo campo in particolare quando guardiamo alle lobby degli psichiatri e quando guardiamo alle politiche che si fanno per la salute mentale in generale. Però, contemporaneamente va constatato esserci un radicamento nella comunità, di tutto quello che è stato fatto in questi cinquanta/sessant’anni di lavoro nella salute mentale, molto più forte di quanto apparentemente non sembri, di quanto emerga attraverso i mass media, attraverso le politiche pubbliche.
È cambiata la visione della sofferenza mentale tra le persone. Oggi il vissuto della pericolosità del matto, della persona con disturbo mentale, è molto più ingigantito dai mass media, di volta in volta a seconda delle campagne politiche che si vogliono contrastare o portare avanti, di quanto lo sia nella popolazione in generale. Anche perché la sofferenza mentale appartiene in maniera così diffusa alle persone che tutti noi ne siamo toccati, direttamente o indirettamente.
Questa rivoluzione ha raggiunto risultati importanti che hanno avuto la massima espressione della chiusura dei grandi istituti manicomiali, che oggi non esistono più (anche se oggi è in atto un fenomeno di re-istituzionalizzazione). Agli inizi degli anni Settanta c’erano più di 100.000 persone internate, recluse, nei manicomi italiani, negli 86 istituti pubblici italiani. Oggi non ci sono più. Questo va detto con forza.
Con la fine dell’internamento è poi cambiato il destino di uomini e donne con sofferenza mentale. Le persone con disturbo mentale sono entrate nella cittadinanza sociale. Hanno diritti come tutti, anche se rimane la questione di quale consapevolezza c’è da parte delle persone con disturbo mentale, in particolare nelle situazioni di crisi, di essere soggetto di diritti e di come si è in grado di difendere i propri diritti. Le persone con sofferenza mentale sono entrate nella cittadinanza sociale e questa è una conquista enorme che ci dice che la legge 180 è una legge attuata.
Poi c’è il problema dei servizi, il problema delle pratiche, degli stili operativi Infine c’è il problema delle violazioni dei diritti umani che ancora si perpetuano nei confronti delle persone con disturbo mentale, anche nei servizi della riforma.
Insisterei ancora sul tema precedente. Perché la medicina porta con sé questa vocazione autoritaria e segregazionista? Ricordo le litigate che facevo col primario di Sarnico dove rimasi ospedalizzato per un anno, perché non voleva farmi uscire durante il fine settimana quando non c’era la fisioterapia. Lo minacciavo di chiamare gli avvocati e la stampa
Non so se saprò risponderle in termini compiuti. Ma certamente voglio mettere in evidenza la questione della relazione sapere-potere della medicina che trova forse la sua massima espressione nella psichiatria, anche a partire dalla debolezza epistemologica della scienza psichiatrica. Ma la questione del sapere-potere è alla base della relazione medico paziente. È una delle questioni della medicina. È a partire da questa questione che si determinano le organizzazioni proprie della medicina, che a volte sono anche istituzioni totali, e si determinano le relazioni non terapeutiche tra persone in cura e operatori.
Questo binomio potere-sapere è un binomio che voi combattete?
È stata una delle grandi questioni poste ed affrontate da Franco Basaglia.
Andare al di là del modello sapere-potere?
È una questione della medicina. È una questione della cura, quindi della relazione operatore-utente. E, in assenza del sapere, la psichiatria utilizza il potere nella relazione curante-curato.
In Italia si continua a praticare l’elettroshock. Nella maggior parte dei servizi dedicati alla salute mentale si continua ad utilizzare la contenzione meccanica, cioè si continuano a legare i pazienti. Riuscirete a convincere la magistratura a cancellare l’obbrobrio del legare?
La questione del ricorso alla terapia elettroconvulsivante (TEC) in Italia non è una questione di particolare significatività. Nonostante la richiesta da parte della società degli elettroshockkisti, o elettricisti come vogliamo dire, nel 2008 di costituire centri per l’elettroshock, uno ogni milione di abitanti, la richiesta non solo non è andata avanti, ma anzi il numero di centri pubblici e privati in cui l’elettroshock si faceva è diminuito. Io mi riferisco in particolare al pubblico. Nel 2007 la TEC era praticata in sei centri pubblici tra questi c’era anche Cagliari. Ma dal 2008 lì non si è fatto più elettroshock.
Complimenti. Questo è frutto delle sue battaglie.
Certo.
Poi per pudore aggiunge in un sussulto la parola anche.
Non è una questione così diffusa quella dell’elettroshock in Italia. Anche il centro di Pisa oggi è meno attivo di quando era diretto da Cassano.
Il legare è invece pratica diffusa nei servizi della psichiatria, di norma pratica sommersa che emerge quando accade un incidente, la morte di un/una ricoverata. La mia storia professionale, oltre che personale, è stata attraversata in maniera significativa dal tema della contenzione, quando ero direttore del Dipartimento di salute mentale di Cagliari, dove moriva legato nel Spdc del S.S. Trinità nel 2006 Giuseppe Casu.
Il ministro Speranza nella Conferenza nazionale salute mentale del 25 e 26 giugno 2021, nel suo discorso iniziale ha posto tra le questioni centrali il superamento della contenzione meccanica. Il ministero, attraverso il tavolo tecnico della salute mentale, ha prodotto un documento, a cui ho collaborato, per il superamento della contenzione meccanica nei dipartimenti di salute mentale. Documento che oggi è all’attenzione della Conferenza Stato-Regioni. Importante per il raggiungimento di questo obiettivo è stato anche il lavoro della campagna …e tu slegalo subito, che stiamo portando avanti dal 2016 con grandi difficoltà legate all’assenza di un impegno diffuso su questi temi da parte della politica e tanto più da parte delle lobby professionali, in particolare degli psichiatri.
Anche se, e lo ritengo estremamente importante, la campagna ha fatto sì che il tema del legare nei servizi socio-sanitari, nei servizi della psichiatria, sia uscita dal sommerso.
Questo non è una cosa da niente. Oggi se ne parla, non per merito degli psichiatri. Se ne parla principalmente per merito dei familiari delle vittime della contenzione. Mi riferisco a Giuseppe Casu che muore a Cagliari nel 2006, a Mastrogiovanni che muore a Vallo della Lucania nel 2009, a Elena Cassetto che muore bruciata nell’SPDC di Bergamo nel 2019. Se ne parla e ne cominciamo a parlare le persone stesse che hanno subito la contenzione.
Oggi le morti per contenzione non passano nel sommerso e a partire da queste morti, la comunità, la cittadinanza, è stata informata di quello che accade o che può accadere ancora nei servizi ad una persona in un momento di crisi, in un momento di sofferenza, quando più avrebbe bisogno di vicinanza, di ascolto, di empatia, di aiuto.
Va detto che si lega non soltanto nei servizi della psichiatria. Oggi in Italia le persone che sono più a rischio di contenzione, che più subiscono la contenzione meccanica, che quindi sono più legate, sono i vecchi istituzionalizzati nelle RSA.
Rotelli riferiva che i dati Istat parlano di 300.000 anziani nelle RSA. Ma si potrebbe persino pensare che siano 600.000. Franco Rotelli sottolineava l’importanza della Commissione Paglia che cerca di superare il modello delle RSA.
Certamente va fatta chiarezza sul numero delle persone anziane internati nelle strutture residenziali. La commissione Paglia si sta occupando di questo. C’è poi il problema della violazione dei diritti umani che si perpetua nelle strutture per anziani, prima fra queste il ricorso alla contenzione meccanica, il legare. Finalmente, anche a partire dalla pandemia, c’è stata una rilevazione da parte dell’Istituto Superiore della Sanità sulle contenzioni nelle RSA. Il numero è rilevante e vanno intraprese azioni per il suo superamento. La commissione Paglia non ha ancora affrontato questo tema. Certamente sta affrontando in maniera egregia la questione del mutamento del paradigma della cura, della presa in carico, dell’assistenza alle persone anziane. Sta affrontando le questioni collegate al passaggio da un paradigma focalizzato sulla custodia a quello della presa in carico nella comunità e nella libertà. Non ha ancora affrontato il tema della contenzione. Su questo probabilmente la campagna …e tu slegalo subito chiederà un’audizione.
L’altra questione che non è ancora in evidenza è quella della contenzione delle persone con disabilità istituzionalizzate. In generale la questione degli istituti per persone con disabilità è una questione che continua a rimanere sullo sfondo, non all’attenzione della comunità. Quindi, continua ad essere sequestrata nei luoghi della reclusione.
Per le persone con disabilità e con problemi di autismo, invece di istituti dobbiamo pensare a progetti individuali da vivere nella comunità, supportati.
In sintesi la questione della contenzione è fortemente legata a soggetti fragili, a soggetti con poco potere contrattuale e alla questione delle istituzioni totali Quello che vorrei sottolineare è che le persone vengonolegate in istituzioni chiuse, in istituzioni totali.
Tra le istituzioni totali, oltre ai manicomi che voi siete riusciti a far cancellare, alle RSA su cui si sta discutendo, c’è anche il carcere. Gli eventi di Santa Maria Capua Vetere dimostrano come anche il carcere sia un’istituzione da smontare perché genera malattia.
Voi spingete anche per perché vengono creati i progetti alternativi al carcere?
Tra le istituzioni totali in questo momento aggiungerei anche i centri di detenzione delle persone straniere che sono le istituzioni dell’attualità.
Il carcere è l’istituzione totale per eccellenza, a cui guardiamo da anni, con cui bisogna fare i conti. Ricordo le lotte degli anni Settanta sul liberarci dalla necessità del carcere, portate avanti tra gli altri anche da Mario Tommasini. È un tema che ritorna con forza anche dopo gli episodi di Santa Maria Capua Vetere.
Quando si parla degli ultimi le donne sono sempre gli ultimi degli ultimi. È così anche in psichiatria, nei reparti di diagnosi e cura?
Sono d’accordo che di norma le donne sono gli ultimi degli ultimi. C’è ancora molta disattenzione sulla questione del genere. Ed è invece una questione che anche nella medicina e anche nell’assistenza deve essere considerata. Perché ci sono delle specificità che vanno assolutamente messe in luce, dei bisogni specifici delle donne. Forse anche in questo campo dobbiamo riaprire alcune questioni, riprendere una lotta. Dobbiamo capire quale trasmissione c’è stata delle conquiste del femminismo alle attuali generazioni. Come si ripropone un’altra volta la questione del genere, come si propone la relazione uomo-donna nell’attualità.
Non so se le donne nei servizi di diagnosi e cura sono gli ultimi degli ultimi. Molto di più mi sembra che lo siano, se usiamo come indicatore la contenzione, i giovani uomini. Se poi ci sono giovani stranieri migranti, lo sono i giovani uomini stranieri migranti.
Sicuramente nell’ospedale psichiatrico, e anche nei processi di superamento dell’ospedale psichiatrico abbiamo visto una disuguaglianza rispetto alle pratiche emancipative a favore delle donne. Mi soffermo sullo strumento dell’inserimento lavorativo, della borsa di formazione lavoro, quindi di strumenti che intervengono per migliorare i percorsi di vita delle persone, per dare ruolo sociale alle persone con disturbo mentale, per non rimanere totalizzati nella malattia. Questi strumenti erano poco utilizzati nei confronti delle donne, tranne che nei lavori tradizionalmente legati alle donne, per esempio le pulizie. Venivano valorizzati molto di più per gli uomini. E questa è sicuramente una delle pratiche disuguali che sono attuate. Contro tali disuguaglianze a Trieste noi operatrici donne ci siamo impegnate, costruendo gruppi donna nei centri di salute mentale, aperti alle donne della comunità e inventando insieme percorsi emancipativi speciali per le donne, fino ad arrivare all’esperienza del Centro donna Salute Mentale.
Noi abbiamo iniziato questo nostro dialogo parlando anche della sua difficoltà, del suo impegno, ad andare al di là del gap dato al genere. Che cosa l’ha aiutata ad emanciparsi?
Ride quasi con un alone di timidezza. Mi sorprende perché l’immagine che Giovanna Del Giudice è un’immagine di forza e determinazione, da cui mi sembrava si potesse escludere la timidezza.
Guardi.
Sento il suo imbarazzo. Le parlo di me e lei mi guarda con occhi accoglienti e luminosi, affettuosa e curiosa.
A me ha aiutato ad emanciparmi capire che se non avessi combattuto una lotta per la mia emancipazione la società e la famiglia mi avrebbero emarginato. Quindi ho dovuto assumermi la responsabilità della mia malattia e di ciò che volevo diventare come uomo.
Questa è una bella risposta che potrei fare mia.
Sorridevo pensando a due cose. Quello che mi ha aiutato ad emanciparmi è una tenacia, una persistenza, una resistenza contro tutte le violazioni, che mi era propria. Contro tutte le violazioni dei diritti. Quello che mi ha aiutato è stato continuare ad avere la capacità di dire di no a quello che mi veniva imposto o proposto in quanto donna. Poi ho avuto l’esempio di una madre eccezionale, una grande donna.
Avevamo perso nostro padre quando mia madre aveva 39 anni e noi tre figli eravamo piccoli. Io avevo nove anni. Lei ha avuto la capacità di prendere in mano la storia della nostra famiglia, di iniziare a lavorare, accettando anche di allontanarsi da casa per lavoro per un mese, continuando il lavoro di agente di commercio di mio padre, durissimo per una donna negli anni Cinquanta, nel sud.
Questa situazione di partenza l’ha aiutata a mettersi nei panni dei fragili?
Non lo so. Certamente questa vicenda mi ha aiutato a riconoscere e leggere le situazioni potere e di abuso messe in atto quando le situazioni di vita si indeboliscono, diventano più fragili. Anche in nome di una tutela che toglie diritti, per il “bene” dell’altro. E ho imparato a combattere tutto questo, pagando anche sulla mia pelle. Sono però sempre stata appoggiata da questa donna che mi ha permesso/sostenuta ad esempio nel fare medicina. Io dico permesso perché non era scontato ai tempi per una donna fare medicina, nella mia situazione sociale. Quindi, da una parte c’era una mia forte intenzionalità, una mia capacità di studio anche per ottenere il presalario, ma sono stata anche appoggiata da mia madre.
Il suo viso si addolcisce nel rievocare le figure della sua giovinezza.
Storie di altri tempi.
L’altra cosa che certamente mi aiutato in questo percorso di emancipazione è l’aver lasciato la mia città. Quando mi sono laureata, a luglio del ’71, avevo maturato la voglia di fare psichiatria. Sapevo che c’era stata “Gorizia”. Avevo letto l’Istituzione negata e La Maggioranza deviante.
E ho cercato Franco Basaglia e per chiedergli dove potevo andare a lavorare in una delle esperienze nella psichiatria, nate dopo Gorizia.
Tenace ma anche determinata. Mi sembra che la determinazione sia un’altra delle sue caratteristiche.
Sì. La tenacia e la determinazione. Sono arrivata a Colorno e Basaglia non c’era, era in Provincia. Era la prima volta che entravo in un manicomio. Quindi ho vissuto tutta una serie di emozioni. Avevo preparato un discorso molto semplice che si componeva di tre parti. Voglio andare via da Lecce. Devo lavorare, quindi devo mantenermi. Voglio fare psichiatria e vorrei farla in una delle esperienze avviate dal suo gruppo dopo Gorizia. Il discorso era molto semplice, molto chiaro e molto diretto. Quando riuscii a parlare con Basaglia non mi chiese nient’altro. Mi rispose dicendomi che era diventato da poco direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste e mi propose di andare a lavorare con lui. E io ero strabiliata. Era il 5 ottobre del ‘71.
Lo dice con una sorta di tremore nella voce.
Mi pareva impossibile. Ho ripetuto il discorsetto che avevo preparato per tre volte di seguito perché non ci credevo. Basaglia è stato molto paziente. Ha ascoltato poi mi ha detto “Sì va bene. Può venire a lavorare con me. Ritorni a Lecce, faccia l’esame di Stato e poi mi raggiunga a Trieste quando ha finito”. Così è stato. Il 6 dicembre del ‘71 sono arrivata a Trieste.
Emozionante.
Quando lavoro con giovani, in particolare con le giovani donne che rappresentano le difficoltà che la vita pone loro, io dico sempre che il problema è anche di voler cambiare il corso della propria vita, di prendere in mano la propria vita, che volere delle cose è fondamentale per avere la possibilità di ottenerle. Questa è una delle questioni che ritorna anche nella sua storia, mi pare di capire?
Si rivolge a me con uno sguardo di intesa.
Mi sembra che sia necessario, al di là delle difficoltà oggettive assumersi la responsabilità di se stessi. Questo senza negare che il reale pone degli ostacoli, che ci sono difficoltà, limiti economici e tante altre cose che possiamo ribadire. Però il passaggio alla responsabilità personale credo sia un passaggio essenziale, da cui non si può prescindere.
Basaglia diceva che la libertà cura. Che cos’è per lei la libertà professoressa?
Si sofferma a riflettere. Prende la rincorsa.
Parlerei di libertà da e di libertà per.
La libertà dalle sovrastrutture, dalle istituzioni, dalle culture, dalle politiche che tendono a fissarci in un ruolo unico, che tendono a toglierci partecipazione, protagonismo, che limitano le nostre azioni, i nostri pensieri, che tendono a eliminare, ad abolire il diritto, a limitare, un pensiero critico.
La libertà per è la libertà per poter fare le cose che ognuno di noi vuole fare. Libertà di essere su molteplici piani, di avere una casa, di avere un’affettività, di avere relazioni, di studiare, di lavorare. Libertà per essere nella nostra vita in maniera consapevole e secondo le nostre aspirazioni.
Sono le questioni per le quali lavoriamo per noi, ma dobbiamo lavorare anche per gli altri.
La libertà è terapeutica diceva Franco Basaglia. È stato lo slogan di Trieste nei primi anni quando lavoravamo per decostruire il manicomio, smontare il manicomio, per superare tutti i meccanismi che toglievano diritti ai soggetti, che toglievano identità, voce, possibilità. Il nostro slogan era “La libertà è terapeutica”. Noi sapevamo, e lo sapevamo a partire da quello che vedevamo nel mondo artificiale e violento del manicomio, ma anche nella relazione terapeutica, che la cura non poteva essere se non a partire da un uomo o una donnaliberi, da una persona che poteva entrare in maniera reciproca in una relazione. Questo riconoscendo sempre che nella relazione di cura c’è anche una relazione di potere, ma continuando a lavorare perché questo gap di potere tra il curante e il curato fosse il più limitato possibile. Perché la persona potesse partecipare, potesse avere voce nel proprio percorso di cura.
Nello smontaggio del manicomio la libertà per le persone ricoverate è stata la libertà di parlare, di scegliere, di uscire, di avere degli oggetti e delle relazioni. Questo è anche nell’attualità. Il lavoro di cura non deve intervenire soltanto sul nucleo della malattia, su cui bisogna, è necessario intervenire anche attraverso la cura farmacologica, oltre che psicologica. Ma bisogna intervenire anche sull’esistenza dei soggetti relazionata, contestualizzata. Quindi non solo sul nucleo della malattia ma anche su dove le persone stanno, su quali relazioni hanno, su dove abitano, qual è il loro reddito, sulla formazione, il lavoro.
Dal libro di Alberto Gaino Il manicomio dei bambini emerge che in tempi neanche tanto lontani per finire in manicomio bastava che un medico scrivesse “Pericoloso a se stesso e agli altri”. Ciò accadeva anche con bambini di due-tre anni. Così il bambino veniva preso e portato in manicomio. Non basterebbe questo per mettere sul banco degli imputati la medicina italiana?
Sì. Basterebbe questo. Basterebbe questo eppure non basta.
Dobbiamo continuare quotidianamente a riproporre le questioni. Dobbiamo continuamente guardare alle contraddizioni che oggi esistono qui e ora e lavorare per spostare in avanti la contraddizione. Basterebbe questo. Basterebbe interrogarci sulla morte di Elena Cossetto. Elena ricoverata nell’SPDC di Bergamo che viene vista dagli infermieri che sta per impiccarsi e viene legata.
Ma è possibile che la medicina, la psichiatria, di fronte è una giovane donna di diciannove anni, sofferente, che vuole porre fine alla sua vita, è possibile che di fronte al dolore di questa giovane donna altra risposta non trova se non il prenderla, metterla su un letto, legarla ai piedi, alle braccia, metterle una cintura toracica per fissarla prepotentemente e violentemente contro il materasso, e poi lasciarla sola dentro la stanza chiudendola a chiave?
Basterebbe questo? Certo che basterebbe.
E Elena muore bruciata nel suo letto di contenzione. Nella sua disperazione, nella sua solitudine. Elena si è data a fuoco. Ha dato certamente lei origine all’incendio che poi a provocato la sua morte. Gesto di ribellione? Richiesta d’aiuto? Non lo sappiamo.
Basterebbe questo. Eppure questo non basta. Questo neppure ha giustizia.
Lei prima mi chiedeva della magistratura. La magistratura è sorda e disuguale. Perché disuguali considera i soggetti che vengono legati. Non interviene. Nel caso di Elena il gip ha portato a giudizio l’ultimo anello della catena, e cioè due uomini di un servizio antincendio appaltato dell’ospedale psichiatrico di Bergamo. Saltandotutto quello che c’è stato prima, l’abbandono dei medici, l’abbandono degli operatori, la violazione dei diritti e la tortura imposta ad Elena che viene legata, il fatto che viene lasciata sola e chiusa a chiave. Quindi, assolvendo assolutamente i tecnici e la pratica del legare.
Molti giudici assurdamente non sanno, non conoscono, non intervengono. Ma a partire da una concezione disuguale della giustizia.
Non basterebbe questo?
Sì che basterebbe. Eppure non basta.
Non sono bastati neanche i manicomi dei bambini come il Ralli e Villa azzurra. Così come non è bastata la fotografia della piccola Maria crocifissa ed esposta nuda su un letto di contenzione. Non è bastato. Così come non bastano i 20.000 minori che oggi, come scrive Alberto Gaino riportando dati dell’Istituto Negri, sono sotto psicofarmaci perché la medicina italiana lo vuole.
Questo però non ci deve fare avere un atteggiamento depressivo. Questo deve soltanto indirizzare i nostri pensieri e le nostre pratiche per andare avanti nella nostra battaglia.
Ritornando al caso di Elena. A Bergamo siamo riusciti, a partire da questa morte, a creare una rete di associazioni che chiede alle istituzioni una città, Bergamo, libera da contenzione. Questo significa che è possibile fare delle cose. È necessario fare delle cose. È necessario indignarsi. Per esempio mi sono ancoraindignata, nonostante la mia esperienza cinquantennale nella psichiatria, quanto ho visto in televisione servizio sul reparto di neuropsichiatria del Bambino Gesù di Roma. Il professor Vicari mostrando uno scorcio del suo reparto, dove i letti e gli armadi erano cementati al suolo, affermava con indifferenza e convinzione la necessità di contenere a volte gli adolescenti. Parlando della pandemia evidenziava la necessità di moltiplicare i reparti di neuropsichiatria. Ma qual era l’obiettivo dell’intervento, la salute e il benessere di questi adolescenti o la moltiplicazione del potere e della lobby dei neuropsichiatri infantili?
Quale cura ci può essere in un letto di un reparto ospedaliero per un adolescente se non violenza, oppressione, violazione dei diritti? I letti cementati corrispondono a una concezione dell’altro come pericoloso a sé e agli altri. E quando c’è questo paradigma quale può essere la cura?
Il Bambin Gesù con la contenzione, i letti cementificati, il suo modo di trattare anoressia e bulimia non è un’altra modalità di accanimento sul genere femminile. Abbiamo sostituito alle vecchie formule di isteria le nuove formule di bulimia e anoressia?
C’è un globale accanimento rispetto all’universo femminile che ogni cultura esprime e declina in modo specifico. Ma che unisce trasversalmente tutte le culture?
È un mio delirio mistico?
No. Oggi ci siamo alzati con la notizia di un ennesimo femminicidio in Italia. Questo per dire che i talebani sono tra di noi.
Lei mi ha mostrato una fotografia molto bella, allegra e gioiosa. Vuole raccontarla?
Ed è una giornata particolare. La festa… il momento in cui Basaglia, nel novembre del ‘79 ci saluta perché e va a Roma.
E da lì a poco morirà.
Da lì a poco Basaglia muore.
Lo dice con voce mesta.
Parliamo delle foto. Mi nomina i visi. Si immerge nei ricordi. La sua voce si fa di nuovo vivace. Le chiedo di Basaglia.
Chi era Basaglia come uomo? Era polemico, fegatoso, tranquillo, dolce, rabbioso? Chi era?
Era una persona complessa che metteva sempre in evidenza l’altra faccia della verità che tu gli portavi. Era una persona rigorosa, fortemente rigorosa. Lo ricordo quando la mattina alle 7:30 convocava nel suo studio noi giovani medici e ci interrogava sulla psichiatria tradizionale. Arrabbiandosi con noi quando mettere in discussione la psichiatria, senza conoscerla a sufficienza. Lui diceva che potevamo mettere in discussione la psichiatria soltanto conoscendola. Era profondamente umano. Non userei mai la parola dolce ma la parola umano si. Capace di indignarsi. Capace sempre di mettere in evidenza la contraddizione. Capace sempre di provocare
Capace di discutere fino allo stremo.