Passati alcuni giorni dall’uragano mediatico scatenato dalla sentenza della Corte d’Assise di Brescia sul caso dell’uxoricida assolto per vizio totale di mente, si sono già potute conoscere le ragioni della decisione: dopo aver indicato, alla lettura del dispositivo il 9 dicembre scorso, in 90 giorni il termine per il deposito della motivazione, la Corte, nella persona del Presidente estensore, ne ha impiegati poco più di un decimo per articolare i motivi di una sentenza considerata, da più parti, indigesta. Fatto inusuale che conferma, se ve ne fosse bisogno, la perdita di serenità del giudice dinnanzi al furor di popolo (Amodio) e la sua soggezione non più solo alla legge ma alla cattiva stampa e al ticchettio assordante delle tastiere.
I fatti sono noti: una coppia affiatata, ottant’anni lui, sessantadue lei, insegnanti in pensione, nessuna pregressa violenza; improvvisamente una notte lui uccide la moglie colpendola nel sonno con un mattarello e numerose coltellate. Tenta di tagliarsi le vene senza riuscirci, dopo aver provato a gettarsi dal balcone; resta in casa per due giorni accanto al cadavere, poi chiama la colf e confessa subito agli inquirenti. Sin dall’ingresso in carcere viene segnalata la necessità di un approfondimento sulle sue condizioni psichiche e, dopo una consulenza approfondita, viene dichiarato totalmente incapace di intendere e volere e conseguentemente assolto, con applicazione della misura di sicurezza del ricovero in REMS.
Della vicenda, semplice nella sua tragicità ma con implicazioni complesse, si è detto già molto: è materia rovente, crocevia di temi diversi e delicati che solo per un caso, stavolta, essendo maschio il difensore dell’imputato, mette da parte la domanda altrimenti obbligata in casi simili: come può un avvocato donna difendere il femminicida? Che un PM donna lo accusi e chieda l’ergastolo ben si inquadra, invece, nello schema della rassicurazione popolare. Che una Corte (a prevalenza femminile) lo assolva fa scandalo.
Già in questo spazio è stata stigmatizzata da Maria Grazia Giammarinaro e Michele Passione la sconcertante iniziativa della “nota a sentenza” anticipata; oggi la motivazione depositata – unico luogo legittimo di esplicazione del percorso decisionale del giudice – dà la netta misura degli effetti di una politica dissennata, espressione della nouvelle vague del populismo penale, che vuole imporre una «regressione a modelli di penalità premoderni, anteriori al razionalismo illuminista e proiettati su archetipi ancestrali in cui manca del tutto un’autorità pubblica e quindi ogni istanza moderatrice del bisogno di violenza della vittima». Modelli in cui «si concepisce la sanzione penale come uno strumento intessuto dei soli sentimenti di collera e ritorsione. Chi subisce l’offesa viene accreditato come titolare di una sovranità punitiva che (…) paralizza i poteri di accertamento dei reati o di punizione dei colpevoli da parte di organi dello Stato indipendenti e imparziali»: ancora E. Amodio, La giustizia a furor di popolo, Donzelli Ed. 2019, p. 19.
Per inciso, uno degli interventi legislativi ivi evocati a esempio è la L. 12 aprile 2019, n. 33, che ha sancito l’inapplicabilità del rito abbreviato ai reati puniti con la pena dell’ergastolo: niente sconti, più pena, più carcere (la novella è stata recentemente “salvata” dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 260/2020). Nel caso in esame l’imputato non ha potuto chiedere il rito abbreviato – che avrebbe avuto, con tutta probabilità, identico approdo -, sebbene in Corte d’Assise, con il consenso delle parti, non si sia poi, di fatto, proceduto al dibattimento essendo stati utilizzati tutti gli atti di indagine, senza sentire i testimoni; l’unico aspetto oggetto di approfondimento, tramite l’escussione dei consulenti della parte civile e dell’imputato, è stato quello della patologia psichiatrica e del suo nesso causale con il reato commesso.
Abbiamo qui un giudice sulla difensiva, costretto a contrastare come può una concezione del suo ruolo gravemente distorta ma che va affermandosi nell’opinione pubblica: il giudice come «cassa di risonanza dell’emotività popolare», da cui ci si aspetta unicamente il soddisfacimento dei bisogni di punizione avvertiti dalla maggioranza dei cittadini.
Nella sentenza, la premessa sul metodo di valutazione delle prove è affidata, infatti, alla singolare affermazione per cui «nell’emettere il proprio verdetto la Corte intende ancorare la decisione ai principi e le regole della giurisdizione»: singolare che vi sia bisogno di scriverlo. Sebbene la Corte prosegua chiarendo di non poter delegare ai consulenti medici le prerogative decisionali proprie del giudice (a questo dovendo ritenersi riferito un richiamo ai principi e alle regole altrimenti, all’evidenza, pleonastico), pare emergere la volontà di tenere fuori dal processo tutto ciò che è etica, e non diritto, con una marcata «attenzione a non banalizzare un tema delicato e complesso mediante equivoci concettuali e linguistici».
Di qui l’esigenza, anticipando quello che può considerarsi il “cuore” della motivazione, di segnare un distinguo netto tra le categorie giuridiche utilizzate dalla Corte e quelle evocate, oltre che dal pubblico ministero con la richiesta di ergastolo, dal frastuono dei media. Difficile non ravvisare un nesso tra il titolo unico imperante sulle testate del giorno della pronuncia della sentenza (più o meno: «Uccide la moglie: assolto per delirio di gelosia»), unitamente ai pregiudizi sessisti da più parti richiamati e ad una visione patriarcale dei ruoli di genere, e la “reazione” del giudice estensore che, nel dare ragione della formula dell’assoluzione prescritta dal codice di procedura penale in questi casi (art. 530), mette in guardia dal rischio di «cadere in cortocircuiti semantici, tenuto conto che la parola “assoluzione”, al di fuori del campo strettamente processuale, è intrisa di una venatura etica e può evocare un’inclinazione al perdono mediante “la liberazione dalla colpa” o la “remissione del peccato”».
Sembra di vederlo, il giudice: come il Pastore d’Islanda del capolavoro di Gunnarsson, asserragliato nel suo rifugio mentre fuori infuria la bufera, cerca riparo dalla tempesta di un’opinione pubblica scatenata negli elementari principi di civiltà giuridica, come quello secondo cui «non può esservi punizione laddove l’infermità mentale abbia obnubilato nell’autore del delitto la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento» (sul fatto che a questo principio si stia cercando di opporne uno di ancor maggiore civiltà, per cui la responsabilità è terapeutica, e la logica del doppio binario vada abbandonata, molto si sta elaborando e scrivendo in questo spazio, ma il giudice bresciano non lo sa e applica, com’è ovvio, la legge in vigore).
Precisa la Corte che «vanno tenuti ben distinti il delirio da altre forme di travolgimento delle facoltà di discernimento che, non avendo base psicotica, possono e debbono essere controllate attraverso la inibizione della impulsività ed istintualità. Appare necessario, dunque, non confondere i disturbi cognitivi con le episodiche perdite di autocontrollo sotto la spinta di impellenti stimoli emotivi; la liberazione dell’aggressività in situazioni di contingenti crepuscoli della coscienza con la violenza indotta dalla farneticazione nosologica; il “movente” con il “raptus” e “l’allucinazione”; il femminicidio con l’uxoricidio». Su quest’ultimo aspetto la Corte è netta: non si verte, nella vicenda di questo imputato, in un caso di “femminicidio”, inteso come «uccisione di una donna in quanto tale per motivi legati al genere (…), a causa di situazioni di patologie relazionali dovute a matrici ideologiche misogine e sessiste e/o ad arretratezze culturali di stampo patriarcale».
Faccio riferimento subito a questo passaggio perché ne colgo l’intento chiarificatore rispetto ad altri punti della motivazione che solo a una lettura superficiale possono suscitare fastidio, effettivamente evocando atteggiamenti culturali retrivi: alludo al paragrafo dedicato all’esame del delirio di gelosia, come ravvisato concordemente dai consulenti di PM e difesa.
La Corte osserva che la vicenda presenta profili inquietanti «perché l’impulso omicida si è infiltrato nella mente dell’imputato in modo silente, ma con insistenza ossessiva, fino a deflagrare il mattino del fatto in una “spinta irrefrenabile”, ricalcando lo schema tipico della sindrome delirante, ove il disturbo non interferisce di norma con la quotidianità. [L’imputato] non ha infatti ritenuto fondato il tradimento sulla base di dati storici, bensì attraverso la rimuginazione di elementi frammentari e insignificanti, quali i momenti di convivialità della moglie organizzati a livello scolastico, le uscite con colleghi ed alunni della classe con cui si sarebbe intrattenuta fino ad ora tarda, le cene avvenute anche in sua presenza con soggetti di sesso maschile. L’imputato ha nella sostanza riletto e reinterpretato eventi di un’assoluta banalità in modo acritico, certo di aver “capito tutto” senza bisogno di prove, proprio perché il convincimento non era ancorato a dati reali. (…) Le situazioni (“cose vecchissime”) che in un primo tempo aveva vissuto come normali (…) gli erano apparse improvvisamente sotto una diversa lente e gli era “tornato tutto” (…) rivisitando a distanza di tempo i medesimi eventi con il conato emotivo travolgente … di uno… che ha trovato sua moglie in camera con un altro, come se l’avesse scoperta in quel momento (stenotipia CT difesa)».
La fretta non ha forse consentito, in questo punto, un maggiore sforzo di chiarezza e la delicatezza, certamente non indispensabile ma opportuna, di una parola definitiva sul fatto che un eventuale tradimento fondato, invece, su dati storici, non avrebbe potuto rivestire un qualche rilievo attenuante nel giudizio della Corte.
Sotto altro profilo, invece, sebbene le parole dell’imputato durante i colloqui in carcere, riportate in aula dal consulente della difesa, prima facie sembrino prestarsi alla lettura semplicistica sposata dai mezzi di informazione, la sentenza mette subito a fuoco il punto centrale. Dice il consulente: «le (rare) cene della moglie con i colleghi si svolgevano in “osterie” e non in ristoranti, quasi a voler rimarcare la disdicevole frequentazione di “bettole” da parte di una donna sposata, dando poi per appurato che gli incontri con i commensali si concludessero con “tradimenti sessuali”». Ma, osserva la Corte, «ciò che ha connotato il delirio di gelosia del[l’imputato] non è (…) la presenza o assenza del tradimento, bensì la modalità con cui è pervenuto alla conclusione. Non vi è infatti un passaggio logico in grado di spiegare il mutamento d’idea che lo ha indotto a distanza di anni a riesumare eventi ordinari come episodi devastanti».
Ancora, evocando l’escussione in aula del consulente della difesa: «se da un lato la gelosia può contenere in sé il seme del delirio, tanto da rendere sfumato il confine tra l’aspetto patologico e “l’essere molto gelosi”, nel caso in esame vi era stato uno sconfinamento di tale portata da incidere in modo radicale sulla capacità di intendere e volere. Quando infatti “la convinzione … perde la critica”, il punto di vista dello psicotico diviene non più solo prevalente, ma inscalfibile ed assoluto; ciò lo distingue dall’errato convincimento, che si basa [su] di un’inesatta valutazione del reale. Invitato ad approfondire il tema, il consulente ha precisato che nella impulsività patologica colui che agisce comprende di fare una cosa sbagliata, ma non riesce a controllarsi. Nel caso del delirio “la situazione è capovolta”, poiché ad essere colpita primariamente dalla visione distorta della realtà è invece la capacità di intendere; quella di volere ne risulta viziata di conseguenza».
Resta il fatto che la Corte, a fronte delle concordi conclusioni dei CT di accusa e difesa sull’incapacità dell’imputato, affetto da disturbo di natura psicotica, di rendersi conto di ciò che stava facendo (una persona gelosa «fa una scelta di agire …che può essere più o meno impulsiva, più o meno motivata, più o meno razionale; però può scegliere … [l’imputato] non poteva scegliere») ha dovuto valutare la richiesta, formulata dal pubblico ministero sulla ritenuta piena capacità dell’imputato, di condanna all’ergastolo.
Occorre osservare che dalla lettura della sentenza, da un lato non è facile cogliere con chiarezza se la posizione dell’accusa fosse, in effetti, incentrata sul concetto, di stampo criminologico, di “femminicidio”, al di là di alcune espressioni “a effetto” tipiche della requisitoria davanti a un collegio composto, non si dimentichi, anche da giudici popolari; dall’altro, si percepisce quale tratto distintivo della requisitoria, per quanto possibile attraverso il filtro della lettura del giudice, una certa confusione di piani: tra allucinazione e delirio; tra gelosia come stato d’animo passionale e gelosia delirante, sintomo di patologia psichiatrica; infine, tra conflitto insorto per ragioni estemporanee e contingenti, quali quelle ravvisate dall’accusa e «un atto apicale di prevaricazione nei confronti della figura femminile»; sino all’inquietante evocazione di una giustizia perequativa e ritorsiva: nessuna pietà per chi non ha avuto pietà.
Il PM, infatti, dopo aver elevato un’imputazione di omicidio aggravato dalla premeditazione «a causa della forte gelosia nutrita verso la moglie e della convinzione di essere tradito dalla persona offesa», pare aver escluso, in discussione, il movente della gelosia dalle possibili cause scatenanti l’omicidio, ascrivendo invece il gesto alla volontà dell’imputato di impedire il proprio ricovero in ospedale (in ipotesi voluto dalla moglie, ma gli atti processuali dicono il contrario), a fronte del peggioramento della depressione. Tuttavia, la Corte evoca un passaggio definito «di forte impatto suggestivo» della requisitoria, nel quale la pubblica accusa dichiara: «c’è una donna che è stata massacrata. Siamo quindi di fronte a un delitto efferato commesso da un marito, siamo di fronte al femminicidio … non può infangare, adesso che lei non c’è più, la sua memoria dicendo di essere geloso». Ed ancora, il PM, citato dalla motivazione: «l’organo dell’accusa ha un compito molto più importante che limitarsi a dire: è un caso di letteratura, ci sono i criteri diagnostici”, perché “c’è una persona che chiede giustizia … la povera Maioli che è stata ammazzata! Massacrata! – si tratta di un omicidio efferato, cruento dove non si è avuta pietà di questa donna».
Qual è stata, dunque, la scelta della pubblica accusa? Non citare in giudizio il proprio consulente tecnico, che aveva concluso per essere stato l’imputato, all’epoca dei fatti, come attualmente, affetto da un «Disturbo Delirante, tipo Gelosia, tale da minarne in radice la capacità d’intendere e volere», “fare propria” la consulenza depositata in corso di indagini dalla parte civile (i due fratelli della vittima, i quali in apertura del giudizio revocavano la costituzione), che aveva evidenziato lacune negli accertamenti diagnostici eseguiti dal CT del PM, e chiedere l’ergastolo. Pur a fronte, osserva la Corte, di un quadro fattuale che non lasciava spazio all’ipotesi di una dinamica di “femminicidio”: tutte le persone informate sui fatti hanno descritto una coppia affiatata, con un solido legame affettivo, che mai negli anni aveva manifestato dinamiche di violenza o prevaricazione del marito in danno della moglie. Quest’ultima, nel periodo immediatamente precedente al fatto, in coincidenza con l’acuirsi della depressione dell’imputato, aveva manifestato unicamente timori per un possibile gesto suicida del coniuge.
Il gesto si è invece tragicamente manifestato contro la persona più legata all’imputato, che gli stava accanto e lo accudiva amorevolmente, nella relazione di una coppia felice ed unita in un rapporto (ha riferito agli inquirenti un’amica) di quasi totale, vicendevole dedizione. Non ho competenza medica e certamente mi sfugge una terminologia appropriata, ma nella mia esperienza professionale di avvocato trovo purtroppo altri casi in cui il gesto omicida riconducibile alla patologia psichiatrica si rivolge proprio verso il soggetto accudente, che nell’ideazione delirante dell’imputato viene a coincidere con una fonte di malessere da eliminare. Dopo, la furia si spegne.
L’estensore della sentenza non si fa mancare un paio di citazioni da Shakespeare ma ci induce una domanda, visto che ricorda come non siano emersi elementi per ritenere l’imputato una persona di indole violenta e sostanzialmente non motiva l’applicazione della misura di sicurezza, se non con un richiamo alla consulenza tecnica. Scrive: «L’effetto catartico provato dall’imputato dopo il delitto ha disvelato in modo evidente le ragioni del gesto, poiché è venuta meno la persona che provocava l’afflizione, il delirio ha perso forza. In quel momento cessa l’assedio ideativo, non c’è più Otello, non c’è più Iago ad incalzarlo, si dissolve il “mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre”. Il dramma che ha provocato la sofferenza e l’umiliazione svanisce di colpo e [l’imputato] torna ad essere una persona qualunque. Non è un omicida professionale, è un ottantenne che compie una serie di azioni disorganizzate e, per certi versi, bizzarre. E’ un uomo perso che, all’improvviso, non ha più accanto a sé l’unico vero punto di riferimento della sua vita, si ritrova troppo piccolo rispetto al grande dramma che si è consumato. “[cit. consulente] (…) prima avevamo una persona … trasportata dal delirio, in piena tragedia … è come se a un certo punto si spegnessero le luci, vanno via tutti, e lui rimane così”».
E allora, mi chiedo, perché la REMS?
fonte: La Società della Ragione
Vedi anche: “Pazzo di gelosia: colpevole e non imputabile”