La pandemia sembra aver svelato i limiti, le miserie e le inadeguatezze delle politiche di salute mentale, e delle pratiche.
Sono numerosi gli incontri dove operatori, ricercatori e cittadini attivi si interrogano sul che fare. Non tanto cosa fare oggi in tempo di ristrettezze e di chiusure ma come affrontare il dopo sicuri che tutto dovrà cambiare, che niente potrà essere come prima. Il punto di partenza delle interrogazioni, dei confronti e delle valutazioni è come sempre la riforma psichiatrica, il grande cambiamento. Il testo che segue è un contributo alla discussione. Qui parlo del gruppo di lavoro mentre da più parti mi viene detto che nei servizi di salute mentale oggi, cresciuti a dismisura (fino a più di 2 milioni di abitanti nell’area di riferimento), gli operatori neanche si conoscono e la riunioni di lavoro sono inesistenti. Il gruppo di lavoro è un’astrazione.
Che cosa è stata la riforma dell’assistenza psichiatrica in Italia, o meglio che cosa avrebbe dovuto essere se non un radicale cambiamento delle organizzazioni del lavoro e delle prassi, dei luoghi e dei tempi, delle tecniche e degli indirizzi disciplinari, della disposizione strategica delle risorse in campo e delle persone?
A ben guardare la disposizione dei servizi di salute mentale nel territorio, la loro vicinanza/distanza dalla vita delle persone, i riferimenti culturali e disciplinari, l’organizzazione in una parola può essere assunta come chiave di lettura di ciò che è accaduto e accadde in questo campo. Una chiave efficace per cogliere il senso e le ragioni delle buone pratiche e ancora meglio dei fallimenti.
È del tutto evidente che nel lavoro triestino (non posso non cominciare dalla mia esperienza) l’attenzione quotidiana, frenetica e ossessiva allo smontamento dell’ospedale psichiatrico ha fondato l’impianto dell’attuale struttura organizzativa territoriale. La tensione intorno alla microfisica dei poteri istituzionali su cui fondava la riproduzione del manicomio, l’attenzione alle distanze siderali delle gerarchie, la fatica quotidiana a narrare la storia delle persone, hanno costruito pezzo per pezzo la cultura e la pratica dell’impianto organizzativo che doveva garantirsi e validarsi proprio nella distanza critica e operativa dagli scenari delle psichiatrie biologiche e istituzionali.
Da qui la glaciale stabilità del sistema manicomiale, paradigma della perfetta organizzazione, e la sua immutabilità si è dovuta attaccare con coraggio, non senza rischi e qualche giovanile leggerezza per tradurre ogni cosa nell’incertezza, nell’indeterminatezza, nella banalità del lavoro quotidiano, nella mutevole irruzione dei bisogni delle persone sulla scena, nella presenza non più eludibile dei soggetti.
È qui, io credo, che si è giocato molto sulla progettazione e la crescita dei servizi di salute mentale, della loro capacità di essere nel territorio e di operare di fatto criticamente sui modelli medici e psicologici dominanti, di produrre davvero protagonismo dei cittadini, di vedere la persona, gli individui. Sulla in/capacità concreta di riarticolare le organizzazioni si è giocato in definitiva il destino della riforma.
Nella mia esperienza quando la trasgressione delle rigorose e verticali distanze tra operatori e utenti, la presenza nella ruvidezza della realtà e dei conflitti dei rioni, la partecipazione delle persone nella vita del servizio è diventata esercizio concreto: presa in carico e continuità terapeutica sono entrate nel linguaggio operativo del gruppo. L’organizzazione del lavoro ha ceduto la sua verticalità gerarchica alla presenza dei soggetti, alle infinite forme di riconoscimento e di integrazione tra gli operatori. La valorizzazione dei linguaggi del quotidiano ha generato un lessico originale e nuovo come identità possibile per il gruppo. La presenza delle persone (utenti) come dei loro familiari, degli operatori, è diventata necessaria per il cambiamento e per la validazione delle nuove forme organizzative che si andavano sperimentando.
Il gruppo di lavoro riconosce la presenza di professionalità, di ruoli e di compiti strutturati e, allo stesso tempo, può valorizzare soggetti, linguaggi, affettività differenti. Abbiamo capito che un gruppo di lavoro si struttura quando comincia a definirsi come un insieme di soggetti: operatori, utenti, familiari, cittadini che per le più diverse ragioni attraversano lo spazio del servizio. Quando impara a riconoscere linguaggi differenti e a confrontarsi con essi. A questo proposito mi piace parlare di eterofonie. Parole, suoni, significati che si muovono da posizioni tanto diverse da apparire inconciliabili e incomprensibili se non sempre riconducibili a un possibile ascolto nel riconoscimento di un orizzonte comune.
Un gruppo di lavoro è tale quando è capace di convergere, orientare lo sguardo, progettare insieme. È questo il senso che vorrei dare ai nostri assetti organizzativi. Penso all’organizzazione che cura.
Ed è in questa cornice che appare in tutta la sua limitatezza l’intenzione terapeutica del singolo operatore. Più che le evidenze, sono le premesse, più di ogni altre etiche, quando esplicitate, condivise e quotidianamente alimentate, che strutturano un gruppo, una squadra, un organismo che vive della presenza consapevole di ognuno.
Potrei citare qui, per farmi capire, il paradigma della porta aperta. La porta aperta, dicevamo in manicomio, e continuiamo a dire nella comunità, come momento politico, ovvero restituzione di cittadinanza, di diritto, di democrazia. La porta aperta come momento etico, ovvero riconoscimento di persone, di individui e dunque della dignità, della differenza, dell’inviolabilità dei corpi. La porta aperta come momento tecnico disciplinare, ovvero possibilità del lavoro terapeutico che si realizza nella considerazione dell’altro, nell’incontro, nella conversazione.
Lo sguardo che posso muovere da queste esperienze e da questa riflessione illumina quasi 50 anni di lavoro in salute mentale in Italia e una serie impressionante e reiterata di fallimenti. In molti professionisti della salute mentale l’adesione entusiastica al processo di chiusura dell’ospedale psichiatrico si materializzò in un’affermazione indiscutibile e arrogante della vocazione terapeutica, delle tecniche, del dottore che cura infine: finalmente psichiatri, psicologi, infermieri (con i loro sindacati) potevano liberarsi dal fardello del controllo sociale, proprio della psichiatria. Finalmente potevano delegare ad altri, a un confuso e misero sociale, i bisogni, la miseria dei manicomi che si riversava nella città. Hanno potuto sottrarsi ai compiti e alle responsabilità organizzative che intralciano e sono una perdita di tempo, e ritrovare la purezza della diagnosi, del terapeutico nel camice bianco, nei servizi ospedalieri, negli ambulatori, nelle cliniche private, nelle strutture residenziali.
Di qui montagne di autoreferenzialità e di ambulatori, di sale e di liste d’attesa; le scuole psichiatriche, psicofarmacologiche, psicoterapeutiche sono nate come funghi a sostenere pratiche e organizzazioni tanto confuse quanto, alla fine, distanti. Organizzazioni che, nella cecità autoreferenziale degli attori, si sono costruite accettando miserie, compromessi, riduzioni; isolandosi dai contesti culturali, sociali e sanitari più innovativi del territorio, tenendosi rigorosamente fuori dal rischio di incappare nelle reti partecipative che intanto, se pure a fatica, andavano componendosi. Riproponendo alla fine non integrazione ma frammenti isolati di risposte, non continuità terapeutica, non presa in carico, ma diffusa manicomialità e marginalizzazione.
L’idea che sia il dottore a curare è ancora profondamente radicata nei servizi e si riproduce quotidianamente nella cultura delle persone, alimentando un circolo vizioso che porta a pensare che i servizi di salute mentale, i centri di salute mentale, possano essere omologabili a uno studio medico associato con un infermiere che risponde al telefono e tiene gli appuntamenti e va per le case a dispensare farmaci e long acting.
Per fortuna il tempo non è passato invano e le persone oggi chiedono di guarire. Mettono impietosamente in luce il fallimento di questi sistemi. Impongono l’importanza di rivedere il percorso terapeutico fin dalla prima telefonata che arriva a un servizio. Chiedono di vedere valorizzati i loro faticosi e singolari percorsi di ripresa. Vogliono essere aiutati e sostenuti nell’attraversare cruciali e rischiosi punti di svolta nella loro esistenza. Cominciano a disegnare, con la loro domanda, servizi che pretendono orientati alla guarigione, alla ripresa appunto, al sostegno dei loro sogni e delle loro vite.