Per riflettere su servizi assistenziali, disabilità e disuguaglianze sociali durante l’epidemia di Covid-19 ho dialogato con Fabrizio Starace. Presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica (SIEP), componente del Consiglio Superiore di Sanità e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Modena è stato membro della task force della Commissione Colao per le politiche sociali ed economiche. Dalle sue parole risulta chiaro che le conseguenze delle restrizioni antiCovid possono divenire un acceleratore di differenze sociali: affinché il distanziamento sociale non diventi distanziamento di classe occorre lavorare sulla riduzione della povertà e attuare misure di potenziamento assistenziale soprattutto a carattere territoriale.
Nella lotta al virus le misure restrittive hanno imposto a tutti condizioni rigidissime. Eppure la fascia sociale delle persone affette da disturbo mentale e da disabilità ha pagato un prezzo ancora più alto in termini di accesso alle cure e continuità dei percorsi assistenziali. Si sarebbe potuto evitare questo effetto o al contrario l’epidemia ha mostrato che la protezione di un bene maggiore addebita inevitabilmente un costo ad alcune fasce sociali? Inoltre, stimata un’impennata del disagio psichiatrico nei prossimi mesi/anni, che alternative ci sono per proteggere la società dal virus senza tuttavia esporla a ulteriori problematiche altrettanto serie e preoccupanti? Non sarebbe forse sensato cambiare il modello epidemiologico considerando che affianco alla morbilità e alla mortalità direttamente legate al Covid ne esistono anche altre dovute sempre al virus, ma indirettamente?
Sono 2 i temi fondamentali. Partiamo dal primo: si sarebbe potuto fare diversamente? La scelta del lockdown per quanto dolorosa ci ha permesso di tenere sotto controllo la diffusione del virus e sicuramente tale era l’interesse primario. Ne è derivata l’evidenza che alcuni gruppi siano stati particolarmente esposti a queste misure. In proposito va segnalato che questi stessi gruppi, parlo soprattutto delle persone con disagi psichiatrici gravi o di quelle con dipendenza da fumo, alcol o sostanze, se avessero avuto modo di entrare in contatto col virus avrebbero avuto un maggior rischio di morbilità e mortalità, per la presenza di patologie respiratorie, metaboliche, infettive che ne incrementano la vulnerabilità.
Ciò posto, è vero che il blocco ha comportato una problematica sospensione o il rinvio di molte prestazioni, finanche quelle oncologiche o quelle legate ai problemi circolatori acuti, per i quali il minor numero di accessi ai presidi ospedalieri ha comportato un aumento della mortalità.
Rispetto alla salute mentale, si è registrata una diminuzione degli accessi alle strutture ospedaliere sia per ricovero volontario in SPDC, sia per TSO: il fatto è molto interessante e dimostra quanto i fattori contestuali influenzino significativamente la percezione e l’identificazione dei problemi psichiatrici; questi d’altronde possono o meno manifestarsi in relazione a eventi relazionali, sociali, culturali.
A questo proposito, per passare al secondo punto della tua domanda, vale a dire il previsto aumento di disagi psichiatrici, è utile spiegare che questa previsione non è solo collegata all’impatto delle restrizioni in sé e per sé, ma – direi soprattutto – alle drammatiche conseguenze della crisi economica che seguirà. In questo senso sarà di primaria necessità proteggere le fasce più vulnerabili sia dal punto di vista psicologico che sociale. Non vorrei essere pessimista, ma un accentuarsi a causa del virus dell’ormai pluriennale crisi economica avrebbe come primo drammatico effetto un ulteriore distanziamento dei gruppi sociali, ovvero tra coloro con maggiori garanzie di resistenza economica e quanti hanno invece minori strumenti di gestione dell’emergenza. Se diamo credito alle stime Istat che ci parlano di milioni di persone in stato di povertà già prima della crisi, non è difficile prevedere che questi numeri aumenteranno sensibilmente. E il terreno socioeconomico, come si sa, è sempre stato un fattore certo nel determinare i problemi di salute mentale. Basta analizzare la storia della psichiatria moderna, dall’industrializzazione che nell’800 ha interessato l’Occidente sino ai giorni nostri, per constatare che tutte le più grandi crisi di tipo politico o socio-economico hanno agito da catalizzatori di una psichiatrizzazione delle marginalità sociali. Nel testo Recovery from schizofrenia, tradotto per Feltrinelli col titolo Schizofrenia e guarigione, Richard Warner dimostrava proprio questo rapporto stretto tra crisi economiche e ricoveri in ospedali psichiatrici.
Dunque in un’ottica di analisi delle misure antiCovid la prima cosa da fare, per evitare questi effetti, è lavorare sulla riduzione della povertà, che è come si sa è la più diffusa delle malattie. Ridurre il gap tra condizioni di garanzia e chi non ha i basilari strumenti per la sussistenza significa far sì che il “distanziamento sociale” (meglio sarebbe dire: distanziamento fisico o interpersonale) dovuto al virus non si tramuti in distanziamento di classe.
Così come per la scuola, anche per la salute mentale e la disabilità, in questi mesi le famiglie hanno dovuto farsi carico delle cure andando a tamponare mancanze dovute al vuoto dei servizi e all’assenza di risposte assistenziali. Queste stesse famiglie nutrono dei forti dubbi che il paradigma possa cambiare se l’epidemia si è insinuata in un clima di ormai cronico ristagno dei percorsi di presa in cura, dove i servizi, a causa della pluriennale mancanza di fondi, si sono trasformati in meri ambulatori per la somministrazione farmacologica. Nell’ambito di un rilancio del paese, ci sono margini per ripensare e riprogettare un modello ormai così inefficace?
La risposta è decisamente sì. Personalmente non riesco a pensare a un rilancio senza la ridefinizione di questo modello che riguarda ampie aree del paese e che fin da prima della pandemia rappresentava una tra le maggiori criticità del sistema di sanità pubblica. Potrei affermare che quanto più questi problemi preesistevano, tanto più le misure anticontagio li hanno aggravati; al contrario, dove c’erano servizi con una forte caratterizzazione comunitaria, un orientamento territoriale, sistemi di domiciliarità e inclusione, le conseguenze legate alle restrizioni sono state più tollerabili. Si è visto con quanta gravità si è scagliato il virus sulle strutture residenziali a lungo termine. La metà dei decessi per Covid in Europa sono avvenuti nelle residenze. In Italia si stimano in oltre 400.000 le persone anziane, minori, disabili, con problemi di salute mentale o dipendenze ospitate in Residenze. Il tema ha drammaticamente colpito l’Europa e l’Italia. Si è scoperto che invece di proteggere persone anziane e con disabilità fisica e psichica, queste residenze erano luoghi separati dalla società ed invisibili anche ai sistemi di protezione dalle pandemie. Il virus ha praticamente dato il colpo di grazia a un sistema che ha rivelato tutta la sua inefficacia.
Ma concentriamoci più da vicino sul caso che poni nella tua domanda, quello della salute mentale. Sappiamo dalle analisi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che il sistema dei servizi di salute mentale negli ultimi anni è stato chiamato a uno sforzo sempre maggiore per fronteggiare la crescente domanda di salute mentale determinata da fattori sociali, economici e culturali. Il cambiamento demografico in atto, dovuto principalmente alle ondate migratorie e all’invecchiamento della popolazione europea ed italiana, la progressiva riduzione delle risorse a disposizione e l’impegno nel processo di deistituzionalizzazione richiedono una realistica analisi delle effettive possibilità operative dei servizi a fronte della domanda di assistenza e dell’impegno clinico richiesto. Occorre recuperare il gap determinatosi nell’ultimo decennio tra fabbisogno assistenziale e capacità di risposta, accentuato dall’emergenza Coronavirus.
L’analisi condotta dalla Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica sul rapporto tra fabbisogno assistenziale espresso dall’utenza in carico ai Dipartimenti di Salute Mentale e la capacità assistenziale necessaria per realizzare tutte le azioni previste da Raccomandazioni, Linee Guida, Percorsi e Protocolli di Cura, ha dimostrato che i Dipartimenti di salute mentale sono in grado di rispondere correttamente a poco più del 50% del fabbisogno assistenziale stimato.
Analogamente, l’analisi condotta da FederSerD (la Federazione italiana degli Operatori dei Dipartimenti e dei Servizi delle Dipendenze) sulla base dei criteri minimi previsti dal DM 444/90, comprensivi dell’attività che i Servizi sono tenuti a svolgere presso Carceri e Comunità Terapeutiche, segnala su tutto il territorio nazionale una carenza di personale molto grave: in media la norma prevederebbe un numero 3 volte maggiore degli operatori attuali. Questi dati trovano conferma nell’attuale configurazione degli investimenti nei rispettivi settori. Nonostante l’Italia rappresenti un modello per la salute mentale di comunità – chiusura degli ospedali psichiatrici nel 1978 e degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) nel 2015 – il Paese si attesta nelle ultime posizioni in Europa per percentuale della spesa sanitaria investita in questo ambito.
La ridotta disponibilità di fondi si è tradotta nel depauperamento dei Servizi Territoriali e nell’impoverimento delle attività di inclusione sociale e lavorativa, accentuando le disparità inter-regionali. Ne è conseguito un sempre più ampio ricorso alla residenzialità, da alcuni definita “nuova forma di istituzionalizzazione territoriale”. Se è vero che sono stati chiusi i manicomi e gli opg, occorre dunque monitorare che le stesse logiche reclusive non si riproducano in nuovi contesti segreganti.
Di fatto la spesa per la residenzialità rappresenta il 50% circa dell’intera spesa per la Salute Mentale in Italia e ben oltre il 50% per le Dipendenze Patologiche.
Di qui la proposta – inclusa nelle proposte per la ripresa economica e sociale del Piano Colao – di incrementare l’investimento nei settori della Salute Mentale e delle Dipendenze Patologiche di almeno il 35% rispetto alla spesa attuale, prevedendo il graduale superamento delle disuguaglianze inter-regionali. Tale investimento dovrà procedere parallelamente ad un riorientamento delle prassi dei Servizi verso la personalizzazione degli interventi e il superamento delle strutture residenziali, attraverso un imponente piano di formazione e di riqualificazione delle attività secondo criteri evidence-based.
Già con la riforma della salute mentale si era messo in luce quanto i Centri di salute mentale potessero rappresentare a livello distrettuale e dipartimentale uno snodo importante per arginare l’istituzionalizzazione e per promuovere l’esercizio dei propri diritti di cittadinanza. Ora, in occasione dell’epidemia, queste necessità si sono palesate con ulteriore forza e urgenza: ecco perché nelle proposte del piano Colao abbiamo sottolineato l’importanza di rivedere tutti i progetti per persone con residenzialità a lungo termine, valorizzando fortemente la domiciliarità, il cohousing e la prossimità come contrasto all’istituzionalizzazione.
Il vero problema è che oggi queste soluzioni, oltre a non essere messe in pratica, non sono neanche conosciute da quegli operatori del sistema sanitario e sociosanitario per i quali la gestione di queste persone si limita al piano del disturbo, come fosse indipendente da quello relazionale e ambientale, che, invece incide sensibilmente sia sulla genesi che sulla prognosi.
Lo stesso ragionamento si potrebbe fare a proposito del rapporto bisogno/cura. Come abbiamo detto, l’epidemia ha evidenziato che il sistema di cura basato sulla forte concentrazione dell’utenza ha fallito. Domiciliarizzare le cure attraverso il potenziamento della medicina territoriale consente di avviare percorsi di cura individualizzati e calibrati sulle singole esigenze della persona. Ma questa logica operativa richiede una preindividuazione dei particolari bisogni rinunciando a quello che potremmo definire un assistenzialismo di massa: è una sfida davvero possibile?
Certamente sì. È una sfida non solo da cogliere, ma anche da utilizzare a proprio favore. In questi ultimi mesi ho sentito spesso dire: mai perdere le occasioni determinate da una crisi. Nella nostra prospettiva di sanità pubblica le occasioni sono rappresentate da un’analisi critica di quello che è accaduto. Le strutture residenziali sono un’opzione assistenziale estesa a tante, se non a tutte, le aree sociali della fragilità: minori, anziani, soggetti con dipendenza, disabili, persone affette da disagio mentale e tutti coloro che sono esposti a una maggiore vulnerabilità socio-economica. Come si diceva sopra, parliamo di circa 400.000 persone che vivono in istituzioni diverse dal loro domicilio: la domanda che occorre porsi è se il sistema sanitario abbia definitivamente valutato come efficace e appropriata questa soluzione, o se, come credo, ci possono essere delle alternative basate su un’assistenza di tipo domiciliare e territoriale. Non è importante che si tratti del domicilio anagrafico, si può ricorrere anche a un domicilio di sostegno, un gruppo appartamento, un condominio sociale, purché la persona possa evitare percorsi di isolamento e istituzionalizzazione, che anziché rappresentare l’eccezione stanno via via divenendo una regola. Analizziamo questa opzione per gradi.
Com’è avvenuto per la chiusura dei manicomi, luoghi di segregazione e non di cura, anche in questo caso l’obiettivo è la progettazione e costruzione di un nuovo welfare di inclusione, dove il ricorso ai presidi residenziali costituisca un’opzione da adottare in casi estremi ed eccezionali, garantendo così l’applicazione della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite (CRPD). Dare risposta ai bisogni di cura ed autonomia delle persone anziane, dei minori, dei disabili, con problemi di salute mentale o dipendenze è possibile: lo dimostrano numerose esperienze condotte in modo diffuso sul territorio nazionale attraverso gli strumenti della progettazione sociosanitaria integrata sui quali è disponibile ampia documentazione. Citiamo per esempio l’applicazione del Budget di Salute nelle Regioni Friuli Venezia Giulia, Campania, Emilia-Romagna; i Progetti di vita indipendente, i Progetti per il Dopo di noi. La proposta che si intende dare raccoglie gli elementi comuni e qualificanti delle esperienze menzionate. In particolare, essa è caratterizzata dall’avvio di percorsi individualizzati sulla base di una deistituzionalizzazione permanente. Gli interventi sono specificamente diretti a persone che richiedono prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione e particolare rilevanza terapeutica nelle aree materno-infantile, anziani, disabilità, patologie psichiatriche, dipendenza da droga, patologie in fase terminale, inabilità o limitazioni funzionali. I progetti personalizzati, previsti dall’art. 14 della legge 328/2000, anche se poco utilizzati, comprendono proprio queste quattro aree, corrispondenti ai principali determinanti di salute (formazione e lavoro; casa e habitat sociale; affettività e socialità; espressività e apprendimento) e sono finalizzati al conseguimento dell’autonomia, dell’autodeterminazione, dell’indipendenza dei soggetti, secondo principi di equità, solidarietà, partecipazione e sussidiarietà. La metodologia pone l’enfasi sulla coprogettazione, cogestione e cofinanziamento, nonché sulla valutazione dei processi e progetti da allestire e realizzare tra soggetti pubblici e privati. Agli assistiti e ai loro familiari sono riconosciuti il diritto e la capacità di interpretare i rispettivi diritti/bisogni e di scegliere soluzioni adeguate. Dunque il beneficiario del progetto, da oggetto di intervento deciso da altri, diventa soggetto della progettazione, a cui partecipa di diritto, perché riguarda la sua vita. Al centro del sistema vi è quindi la persona, con un nome e un volto unico e irripetibile, portatrice di esigenze e diritti, che può decidere come le altre persone della società sulla propria vita, perseguendo propri obiettivi, e non una struttura e un’organizzazione. L’innalzamento di questo potere contrattuale tra il cittadino/assistito e la diretta fruibilità dei suoi diritti rappresenta il cuore di questa opportunità.
In merito alla sostenibilità va segnalato che attraverso la riqualificazione delle attività si è potuto ottenere un recupero medio del 30% delle risorse precedentemente utilizzate, che, nel caso delle prestazioni più costose, come la riabilitazione sanitaria, arriva a circa il 44%.
Ovviamente le opzioni fin qui illustrate richiedono maggior lavoro di studio, progettazione e programmazione perché basate sulle singole esigenze dell’individuo e sui suoi particolari bisogni, come dicevi tu. Inoltre non sono poche le difficoltà legate all’integrazione tra politiche sanitarie e sociali e tra agenzie pubbliche e private: sono da sempre settori diversi tra loro, per i quali si avverte sempre più l’esigenza di una governance unica. E ancora, è molto complicato formare gli operatori della sanità verso prospettive associazioniste e cooperativiste. Insomma firmare l’ingresso in una struttura residenziale è semplice e veloce, ma probabilmente non è più sensato. Dunque, nonostante tutte le criticità, la sfida del capovolgimento del modello è irrinunciabile.
L’epidemia ha evidenziato definitivamente la faglia esistente tra un sistema di cure ospedaliero e uno territoriale. Il primo operativo nell’urgenza, il secondo nella prevenzione, nella diagnosi precoce e nella pianificazione dei percorsi assistenziali locali. Se, come si è spesso detto, una maggiore valorizzazione della territorialità avrebbe forse potuto evitare il disastro degli ospedali, con quali misure potrà in futuro concretizzarsi questa strategia?
Qui si apre un discorso importante. Finora abbiamo analizzato le criticità legate all’interazione tra diversi sistemi di gestione assistenziale. Ora, dobbiamo chiederci: cos’è accaduto di clamoroso nell’epidemia? Innanzitutto il sistema sanitario, depauperato e indebolito da decenni di tagli, ha mostrato tutta la sua fragilità, e questo è il primo fondamentale punto.
In secondo luogo, va detto che l’accesso alle strutture ospedaliere, luoghi deputati alla diagnosi e al trattamento dell’acuzie, si è rivelato occasione di esposizione all’infezione, con un conseguente localizzarsi dell’epidemia in specifiche porzioni geografiche. Laddove il sistema sanitario aveva un maggior radicamento territoriale il percorso della cura è stato più efficace perché basato su identificazione precoce, tracciamento dei contatti, isolamento e adozione di distanze fisiche e intrafamiliari.
In salute mentale sappiamo che intervenire precocemente fa la differenza evitando possibili cronicizzazioni della malattia: abbattere la cronicizzazione significa consentire alla persona di ritornare ad essere il prima possibile uno studente, un lavoratore, un cittadino. In maniera assolutamente analoga potremmo ragionare rispetto alla diffusione della pandemia. È solo la precocità a testare, individuare e isolare, impedendo la circolazione virale: solo questo ci permette di anticipare il virus piuttosto che inseguirlo.
Ebbene, questa catena si è rivelata una carta davvero vincente perché ha dimostrato quanto le logiche ospedalocentriche debbano essere ripensate. Come? Sicuramente affidando all’ospedale la gestione delle acuzie e dell’alta intensità assistenziale, potenziando al contempo i servizi del territorio per tutte le restanti necessità sanitarie. Credo che il nostro, nonostante sia il Paese della legge 180, tuttavia sia un Paese ancora molto lontano da una cultura della territorialità: siamo ancora molto restii a capire che la cura della salute è una condizione prioritaria e precoce per evitare l’intervento massiccio in strutture ospedaliere. Il primo passo verso un cambiamento in questo senso è sicuramente il rafforzamento delle strutture sanitarie di prossimità. In Emilia Romagna disponiamo delle cosiddette “Case della salute”, presidi dove le persone possono incontrare professionisti deputati a farsi carico delle cure primarie ma anche specialisti per gestire complicazioni a lungo termine, senza la necessità di ricorrere all’ospedale. Come si comprende, dunque, non servono solo investimenti strutturali e materiali ma anche culturali: è su questa inversione di pensiero che si gioca la partita del rapporto salute/malattia, peculiare per ogni territorio.