L’emergenza coronavirus ha necessariamente messo tutto il resto in secondo piano, condizionando e cambiando la nostra vita. Se la sanità in Italia è sottoposta a un grandissimo stress, ad una sfida senza precedenti, la salute mentale, figlia di un dio minore, soffre in silenzio. L’impoverimento dei servizi, la loro riduzione e accorpamento, la carenza del personale, già denunciati da molti anni in qua, si sommano al fatto di essere messi oggi in coda alla lista delle priorità di salute. Il livello della minaccia, come in guerra, appare più alto, e l’espressione “tutela della salute mentale” suona quasi pleonastica in molti contesti sanitari. Eppure, nell’era in cui nessuno può metter in discussione la liceità di una “biopolitica” dettata dalla medicina, non c’è mai stato più bisogno di politiche di salute mentale come ora, proprio perché tutta la popolazione italiana, e prima o poi del globo, soffre un disagio formidabile, che tocca e toccherà tutti, e non solo coloro che hanno già disturbi diagnosticati di tipo psichiatrico, sconvolgendo il mondo per come lo abbiamo conosciuto.
Si rischia la catastrofe finale, legittimata e perfino comprensibile, del sistema di salute mentale italiano. E’ notizia di questi giorni di Servizi di Diagnosi e Cura lombardi che vengono riconvertiti a reparti Covid, con tutto il personale (benché assolutamente e ovviamente non preparato ai compiti nuovi attribuiti). Molti altri servizi vengono chiusi, o limitati pesantemente, e l’assistenza di base limitata – come tutta quella ambulatoriale “specialistica” – allo stretto indispensabile e ad appuntamento; il che è esattamente il contrario di un servizio flessibile per una popolazione sotto stress. Che cosa sia prioritario è difficile da identificare. Perciò in queste ore si stanno sviluppando documenti di indirizzo e linee guida per orientare aziende, dipartimenti e operatori sul da farsi.
Appare evidente che il “corpo sociale”, cui faceva costantemente riferimento Basaglia, sembra ritirarsi. Quella al Covid 19 sembra in partenza una guerra fatta di individui isolati, di solitudini. Ma è anche di famiglie; o di piccole comunità locali, come il condominio, il vicinato; e di reti virtuali, piccole e aperte, o globali. E inevitabilmente tocca, di rimbalzo, tutto quel “corpo sociale”. Al suo interno, l’operatore della salute mentale è uno dei tanti. Non deve curare la sindrome da Covid, ma ciò nonostante deve continuare a lavorare, perché c’è bisogno di tanti livelli di sostegno, anche psicologico e psichiatrico. E non c’è reale distinzione tra chi cura e chi è curato, paradossalmente l’operatore può trasmettere il morbo, anche perché non sono possibili precauzioni adeguate. Inutile sottolineare la nota situazione in cui i presidi medico-chirurgici elementari, le mascherine, i disinfettanti, mancano quasi totalmente.
Dunque da un lato appare lampante l’inutilità e perfino la dannosità di un assetto ambulatoriale come quello che si teneva finora nei servizi, spesso con affollate sale d’attesa, e degli stessi ricoveri, se non strettamente necessari: tutti implicano una potenziale messa a rischio del “corpo organico” di ciascuno. Tuttavia soffrono di più i servizi “diversi”, quelli nati dalla riforma. Si era detto di abolire la distanza col malato, non di “tenerci a distanza”. La relazione, strumento principe della terapia e anche dell’assistenza nella salute mentale, non si può usare in maniera libera e diretta. Il gruppo, il collettivo, sono di necessità coartati e infine aboliti; perfino il toccare il corpo, che è il medium, individuale e insieme sociale, dove si scarica l’angoscia, è inibito: il “corpo organico” è ora potenziale fonte di pericolo.
I servizi di supporto alla persona, di assistenza domiciliare ed educativa, offerti soprattutto da cooperative sociali, si rallentano o si fermano in mancanza di strumenti adeguati di prevenzione.
Le valenze socioterapiche e riabilitative del frequentare un Centro di Salute Mentale o un Centro Diurno entrano in crisi e in gran parte vengono meno. Incombe ovunque una socialità costretta, guardinga.
Si rivela qui tutta la fragilità di una salute mentale fatta di luoghi. Paradossalmente sono proprio gli ambienti extra-ospedalieri, quelli della normalità, della comunità, del vivere comune, a soffrire di più perché da essere luoghi di incontro e di scambio oggi si possono trasformare in luoghi di infezione. In questo arco sono comprese tutte le comunità dove si realizzano forme di convivenza temporanee o di più lungo periodo, specialmente con una residenzialità sulle 24 ore, dove già, come nelle case di riposo, si sono verificati focolai che hanno coinvolto operatori e ospiti.
Nonostante tutto, mai come ora occorre stringersi attorno ai servizi come ancoraggi per la tutela della salute mentale. Occorre urgentemente salvare i servizi, ripensando al tempo stesso ad una salute mentale nell’era del coronavirus. Che durerà almeno per un po’, lo sappiamo, e comunque sta già trasformando comportamenti e abitudini, singole e collettive.
Se la socialità, in una logica di “restituzione al corpo sociale”, era l’utopia di Basaglia e della riforma, che fare ora che le reti sociali si restringono all’essenziale, mentre si dilatano tutti i media comunicativi, e specialmente i social media? Si vive connessi tramite internet, o al telefono, o attaccati alla TV. Mentre occorre informarsi, troppa esposizione, e specialmente quella a fonti inaffidabili, può aumentare lo stress.
Gli studi sui comportamenti individuali non danno molto aiuto, non hanno molto senso. Essi soprattutto utilizzano ed enfatizzano tale nozione di stress e il conseguente post-traumatic-stress-disorder (il famoso PTSD). E’ di questi giorni la pubblicazione tempestiva su Lancet Psychiatry di una review relativa agli effetti psicologici della quarantena, basata però su altre epidemie, dalla SARS in poi. Ma qui non si tratta di mettere in quarantena singoli individui affetti, o positivi all’infezione, come potenziali fonti di contagio. Il “lockdown”, lo stare chiusi in casa, che l’Italia e ora altri paesi stanno sperimentando e vivendo, è un immane esperimento collettivo, una nuova Norma: una condizione generalizzata, che tocca tutti, e soprattutto chi sta davvero a casa e non si deve recare ogni giorno al posto di lavoro, nella sanità, nella produzione o nei servizi essenziali.
A partire dalla review di Lancet, l’American Psychatric Association tramite l’Università di Bethesda, e ora la Canadian, hanno formulato raccomandazioni. Mental Health Europe ha diffuso una lista semplice di consigli. L’OMS ha fatto un poster sulle forme diverse di aiuto tra persone, con un’attenzione ai bambini, perfino un invito a forme alternative di saluto per evitare strette di mano o abbracci. La IASC ha aggiornato le sue linee guida per l’intervento d’emergenza umanitaria nella popolazione esposta al Covid, ma appare già vecchia perché non contempla la chiusura totale di un paese, o di più paesi. Molte raccomandazioni riguardano gli stessi operatori sanitari e tra essi quelli della salute mentale, che devono prendersi cura dei propri pazienti ma anche del proprio benessere mentale durante i periodi di quarantena, e sul lavoro, che deve continuare. Essi devono poter mangiare, bere e dormire regolarmente, fare pause, comunicare con colleghi e persone care anche attraverso i media, e garantire che sia la propria famiglia che la propria organizzazione siano al sicuro e abbiano un piano in caso di contagio.
Dobbiamo pensare, e rapidamente, a che cosa comunicare, fare e dire in Italia, per aiutare la salute mentale dei cittadini, dai più deboli ai più garantiti. Gli studi confermano – ma come potrebbe non essere così – che in situazioni simili a quello del “lockdown” aumentano la noia, la frustrazione, e pure il livello d’ansia, che dilata la paura dell’infezione fino al panico, e le cenestopatie, ma non troppo. Ci si attrezza tutti di fronte ad un pericolo, che è forte e presente, benché invisibile. Pochi mettono in atto atteggiamenti di negazione e di fuga dal reale, con ostinazione nel mantenere il proprio stile di vita “nonostante tutto”. Ma con l’isolamento soprattutto si può vivere una condizione di trauma generalizzato, con potenziali effetti post-traumatici a breve e lungo termine.
Rispunta intanto l’antica recezione sociale della malattia come colpa, individuale e collettiva, qualcosa che la psichiatria ha conosciuto nella storia e anche oggi impregna la cultura popolare, soprattutto laddove il modello medico non ha sostituito le vecchie credenze e coperto ogni obiezione. Abbiamo già visto scattare ingiustificate forme di pregiudizio e di stigma rivolti a singoli (ex-malati) o a intere popolazioni o etnie.
Urge allora dare e trovare un senso alla quarantena, al di là delle giuste norme di igiene che la impongono. Molti documenti contengono consigli semplici per chi sta in svariate forme di quarantena, come quelle ora generalizzate a tutti e che anche spontaneamente tutti cercano di mettere in atto. Oltre al mantenere un sonno riposante e mangiare pasti regolari, bisogna fare esercizio fisico (in ambiente domestico!); limitare l’uso di alcol, tabacco e altre droghe; parlare con i propri cari, anche di preoccupazioni e timori; praticare eventuali strategie di rilassamento, impegnarsi in hobby e attività piacevoli. Vi sono consigli per chi ha figli, o anziani, e per le famiglie in toto.
Non è così semplice. Il distacco sociale incombe anche su chi non può, o non sa (e a volte non vuole) difendersene. Se da un lato le persone con problemi psichici più gravi, come è riconosciuto, si dimostrano capaci di far fronte e anche di aiutare in condizioni d’emergenza – così succede, ad esempio, nelle guerre – dall’altra l’isolamento sociale di chi ha problemi psicotici è ora ironicamente permesso e “normalizzato” come comportamento imposto a tutti. Molti sono scomparsi dai servizi, rintanati di nuovo in casa. Le famiglie, ove ci sono, tengono o si riprendono i malati: si rinsaldano legami nell’ora del pericolo. Ma sia l’alienazione determinata dall’assenza di legami sociali dei primi, che i conflitti nelle seconde, possono acuirsi improvvisamente e portare a momenti di crisi che vanno assolutamente prevenuti.
Nella popolazione generale, in una situazione omologata in cui sono inibiti lo spostarsi, il fare esercizio insieme, il mangiare o il bere in gruppo, la convivialità, perfino il cantare o il suonare insieme, si afferma di necessità lo stare a fianco a fianco nella quotidianità, in una intimità o promiscuità forzata, che è quella della famiglia (per chi ce l’ha). Altri sono costretti a scegliere se stare da soli o convivere, se si ha una relazione. Chi ha un giardino, una seconda casa, un luogo di ritiro e di fuga, è fortunato.
In questa scena prevalentemente domestica possono comparire, con cautela, i servizi? Una serie di persone allora, le più fragili – e qui non in senso solo medicale o psichiatrico, ma sociale – si devono raggiungere a casa, sia telefonicamente (avere un telefono fisso o un telefonino è ormai riconosciuta come una necessità anche sanitaria, non per niente restano aperti i negozi di elettronica) che laddove occorre anche fisicamente, per portate di persona sostegno e farmaci. Ciò con le debite cautele, ed in una situazione quanto mai consensuale, e di consapevole, bilaterale, massimo contenimento del rischio. Il modello ambulatoriale non lo prevede e questa è già una prima sfida. Occorre priorizzare i servizi, identificare chi ha più bisogno. Si chiama prevenzione selettiva. Sono suggeriti profili psicopatologici a più alto rischio (pazienti con deliri, pensieri e comportamenti ossessivo-compulsivi, sintomi somatici, o precedentemente esposti a traumi gravi) per i quali contatti più frequenti possono aiutare a rispondere alle preoccupazioni emergenti, che possono aiutare a evitare gravi esacerbazioni o ricoveri. Ma più di tutto occorre tenere a mente le storie e le situazioni individuali. Bisogna inventare anche forme di telelavoro, di telemedicina o telepsichiatria, e che siano non fredde ma affettive, una sorta di “telecuore” a distanza.
Si conferma di fatto, in tutta la sua rilevanza e drammaticità, il gradiente sociale della salute mentale: il disagio dei più poveri, di chi sta solo, o anche ammassato, in buchi angusti. Molti possono non avere da mangiare e non accedono a mense sociali o attive nei servizi stessi. Bisogna ricordarsi di assicurare bisogni primari, anche con consegne di pasti. I senza casa poi, sono persi in un nulla sociale, senza elemosine neppure perché non c’è gente per le strade, senza cibi caldi se non con lodevoli sforzi di una parte del volontariato. Qui i servizi devono fare “outreach”, raggiungere chi non vi accede, anche per strada, e sostenere in modo potente con chi garantisce la sopravvivenza, mobilizzando tutte le risorse possibili dei territori, dei rioni, delle associazioni, delle chiese.
Occorre fornire ai più informazione e rassicurazione; ma soprattutto bisogna dare senso all’isolamento. Questo vale per tutti noi, per tutta la società ed è uno straordinario elemento di prevenzione universale, ossia rivolta a tutta la popolazione. Qui emerge la necessità di uscire da visioni individualistiche e optare senza indugio per la condivisione e la solidarietà, civile e sociale. Ora sì che serve innalzare il senso di essere parte di una comunità, e i servizi possono e devono fare da ponti.
Occorrerà allora valorizzare e studiare i fattori di resilienza individuali e collettivi, e le strategie di coping per una “recovery” che mai come ora sarà un fatto interpersonale sociale. Si parla già di “Whole of Society approach”, un approccio globale di società (IASC).
Andranno potenziate le nuove forme di connessione sociale che si stanno sviluppando in questo sforzo collettivo di lungo-resistenza. Come pure una riscoperta del sé, e un allenamento non già solo fisico – il fitness, lo stile di vita salutista che è pure di moda – ma una “cura di sé” di foucaultiana memoria. Che cosa ci serve davvero? Che cosa è essenziale? Mentre siamo rigettati dentro noi stessi, in qualcosa di inaudito per tutti noi, l’ascolto di noi stessi e la focalizzazione sul nostro corpo, perfino sul nostro respiro, vi si contrappone e forse prevale il senso di una comunità, di una lotta comune. Il senso di un eroismo collettivo, dove il corpo sociale frammentato e mediatizzato che si riconnette idealmente, o forse anche concretamente, in molteplici forme di aiuto e sopravvivenza. E questa è salute mentale di un’intera società. Perciò difendiamo i servizi, che interpretano e intermediano questo sociale, mentre difendiamo noi stessi.
Roberto Mezzina ex-Direttore del Centro Collaboratore OMS, DSM di Trieste.