La violenza sulle donne, definita dal Presidente della Repubblica Mattarella [1] “un’emergenza pubblica”, è rappresentata in tutta la sua gravità da ISTAT [2] e da Eures[3]: “nel 2018 il 49,5% delle vittime degli omicidi volontari commessi in Italia è stato ucciso all’interno della sfera familiare o affettiva (163 su 329 vittime di omicidio totali): la percentuale più alta mai registrata in Italia. Di queste, il 67% è costituito da donne (109 vittime) a fronte di 54 vittime di sesso maschile (33%). L’ambito familiare arriva ormai a costituire il contesto omicidiario quasi esclusivo per le vittime femminili, visto che ben l’83,4% delle 130 donne uccise in Italia nel 2018 ha trovato la morte per mano di un familiare o di un partner/ex partner.” “All’interno dell’omicidio in ambito familiare è nella relazione di coppia (in essere o passata) che si consuma il maggior numero dei delitti: nel solo 2018 sono infatti 80 le vittime tra coniugi, ex coniugi o ex partner, pari al 49,1% degli omicidi in famiglia, costituite nel 91,3% dei casi da donne (73 in valori assoluti, contro 7 uomini, pari all’8,7%).”
Nel 2017 si sono rivolte ai 281 Centri antiviolenza presenti in Italia 43.467 donne (15,5 ogni 10mila donne) il che evidenza la portata del fenomeno e al contempo come la risposta non si possa limitare agli aspetti giudiziari ma debbano essere sviluppate molteplici e coordinate azioni di comunità.
Nella maggior parte delle situazioni sono presenti relazioni problematiche o patologiche nella coppia o nella famiglia, spesso in un contesto di apparente normalità. Le vittime sono in molti casi dipendenti economicamente, presentano difficoltà sociali, solitudine e isolamento che rendono la sofferenza quasi impercettibile all’esterno.
Il rapporto Eures segnala inoltre il “crescente fenomeno degli omicidi pietatis causa (o compassionevoli), dettati cioè dalla decisione dell’autore di porre fine ad una condizione di disagio estremo della vittima (grave malattia, demenza senile, ecc.) da lui ritenuta insostenibile (23 casi nel 2018).”
“Anche la relazione genitore/figlio si caratterizza per una crescente problematicità, con un forte richiamo al tema dei figlicidi: si contano infatti 31 figli uccisi dai genitori nel 2018, con una crescita del +47,6% sull’anno precedente (erano 21 le vittime nel 2017). I 31 figlicidi censiti sono stati commessi in 20 casi dai padri (pari al 64,5%) e in 11 casi dalle madri (pari al 35,5%).”
Un disturbo psichico viene diagnosticato nel 15,2% degli autori, una percentuale che nel matricidio sale al 41,4%[4], un punto da approfondire relativamente all’assistenza ai care giver. In ambito giudiziario, più in generale, occorre verificare l’utilizzo e l’adeguatezza della perizia psichiatrica in questo tipo di reati anche quando l’autore sia una persona con disturbi psicotici, disturbi della personalità, psicopatia e uso di sostanze, condotte di stalker. Una svolta epocale sarebbe costituita dal riconoscimento della piena imputabilità e il diritto al processo alle persone con disturbi mentali, tenendo conto poi dei bisogni di cura nella fase di esecuzione dell’eventuale pena.
Quindi le famiglie, con le loro diverse composizioni, vengono ad essere un ambito molto sensibile nel quale non è certo attuabile l’istallazione di telecamere come si propone per controllare la violenza nei contesti di cura. L’intervento dei servizi educativi, sociali e sanitari, per altro spesso non richiesto, risulta al quanto delicato e complesso anche perché sembra ancora lontana una politica coerente e di lungo termine a sostegno di famiglie e genitorialità in un quadro di assunzione di responsabilità da parte di tutta la comunità. Molti elementi sono rilevabili e modificabili da interventi preventivi e precoci, considerato anche il non breve lasso di tempo che di solito intercorre dall’inizio dei problemi, le violenze e la commissione di gravissimi reati.
Il tema richiede interventi a vari livelli: politici, culturali, educativi, sociosanitari, comunicativi ambiti che esulano da questo contributo, il quale ha lo scopo di delineare le alcune implicazioni per i servizi della salute mentale derivanti dall’approvazione del “Codice Rosso” in particolare per quanto attiene il trattamento degli autori dei reati.
Il Codice Rosso
L’obiettivo della legge è quello di rendere più celere sia l’azione penale e sia l’adozione di eventuali provvedimenti di protezione delle vittime. Infatti, per i delitti di violenza domestica e di genere viene previsto che la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisca immediatamente al pubblico ministero, anche in forma orale, facendo seguire senza ritardo quella scritta. Il pubblico ministero, entro 3 giorni dall’iscrizione della notizia di reato, assume informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato e nel caso scattano le indagini.
Il termine di tre giorni può essere prorogato solamente in presenza di imprescindibili esigenze di tutela di minori o della riservatezza delle indagini, pure nell’interesse della persona offesa. Gli atti d’indagine delegati dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria devono avvenire senza ritardo.
Queste indagini spesso implicano un accesso agli atti ai Dipartimenti di Salute Mentale per acquisire informazioni circa la presenza in cura del presunto autore di reato e/o della vittima denunciante.
Una ricerca che frequentemente si chiude con una risposta negativa in quanto la persona non è conosciuta dai servizi. In caso di positività si hanno due diversi scenari. Se la persona è stata in cura ed è stata dimessa la richiesta della documentazione sanitaria da parte dell’Autorità Giudiziaria è prassi consueta ed è possibile l’audizione dei professionisti che l’hanno curata; se invece la persona è ancora in cura si profila una possibile interazione con la relazione di cura.
La richiesta di documentazione o la testimonianza del professionista possono essere privi di conseguenze per la cura? Come conciliare riservatezza delle indagini e una trasparente informativa delle persone?
E’ chiaro che la relazione di cura implica una comunicazione basata sull’autenticità e credibilità e quindi il sospettato autore di reato va informato direttamente dell’accaduto pena la perdita di ogni fiducia.
Questo delle indagini, anche per i tempi spesso assai rapidi, è un potenziale fattore interferente sulla relazione di cura e di forte imbarazzo professionale, specie se nell’acquisire informazioni, in forma di interrogatorio, vengono formulate domande valutative o di tipo prognostico (“secondo Lei è pericoloso?”).
Domande che formulate a dei clinici possono portare a risposte che si prestano a malintesi se non si colgono le profonde differenze tra una valutazione clinica ed una di natura “similperitale”.
Nel merito della notizia di reato vi è talora la difficoltà nel definire gli eventi specie se vi sono relazioni conflittuali e invischiate. Su questo si confrontano sia i giudici inquirenti che hanno l’obbligo di verificare la veridicità e l’oggettività dei fatti mentre psicologi e psichiatri si occupano dei vissuti, della realtà mentale e relazionale, di un insieme molto complesso di fattori biologici psicologici e sociali nella loro complessa reciproca interazione. Non solo la verità “giudiziaria” è diversa da quella “clinica” ma va ricordato come la relazione di cura debba fondarsi su fiducia, speranza, responsabilizzazione e protagonismo della persona anche al fine di un più appropriato funzionamento e non tanto su aspetti normativi o da possibili misure di controllo o custodia tipiche della psichiatria pre 180.
La relazione con l’Autorità giudiziaria, ancora disciplinato dal codice penale del 1930 (art 361, 362 cp) e dall’art 331 del cpp in tema di obbligo di rapporto e referto, prevede una priorità dell’azione penale cui viene chiamato a collaborare anche chi esercita l’attività di cura. Un punto che andrebbe profondamente rivisto e chiaramente disciplinato per tutelare al meglio il mandato di cura dei servizi.
Questo anche perché la denuncia arriva dopo un travagliato percorso con collusioni, dipendenze reciproche e l’intervento giudiziario assume un particolare rilievo per tutte le parti.
Infine, non va dimenticato che se l’essere in cura viene ad essere una sorta di attenuante non vi è da escludere che essa possa servire a precostituire una specie di alibi, finendo al contempo, con il determinare, in un sistema ove vi è una forma di “responsabilità da contatto”, una posizione critica per il professionista psichiatra o psicologo.
Misure cautelari e di protezione
Altro punto del Codice Rosso è quello di rendere più efficaci le misure cautelari e di prevenzione. E’ stata modificata la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa con la finalità di consentire al giudice di garantirne il rispetto anche tramite di procedure di controllo attraverso mezzi elettronici o ulteriori strumenti tecnici quale ad esempio il braccialetto elettronico. Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi viene ricompreso tra quelli che permettono l’applicazione di misure di prevenzione. Nella pratica è parso evidente come questi interventi siano spesso difficili da far rispettare. A questo scopo, nella nuova normativa la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa viene sanzionato con la detenzione da sei mesi a tre anni. Una pena che, come nota acutamente Ferrarella, impedisce di arrestare in flagranza chi stia avvicinandosi di nuovo, in violazione del precedente ordine giudiziario di allontanamento o divieto di avvicinamento, alla donna in pericolo. Infatti, “l’arresto in flagrante è consentito in via facoltativa anche per reati con pene inferiori, a patto però che siano elencati nel secondo comma dell’articolo 381 del codice di procedura: ma il nuovo reato non è in questo catalogo. E si può arrestare in flagranza anche per reati espressamente menzionati (come l’evasione) dall’art. 3 del decreto legge 152 del 1991: ma nemmeno qui è stato inserito il nuovo reato.”[5]
Si rilevano quindi difficoltà a fare rispettare le misure disposte di allontanamento dalla casa e riavvicinamento alla vittima che in nessun modo possono ricadere, anche nel caso di persone in cura magari interdette o con amministratore di sostegno, sui servizi psichiatrici. Per queste, specie se affette da disturbi mentali, può invece aprirsi la via che porta all’adozione di misure cautelari o di sicurezza nei luoghi di cura o in REMS, determinando così ulteriori problemi di appropriatezza e di accesso.
Il trattamento psicologico
Il Codice Rosso si pone anche il problema del trattamento dell’autore di reato. Infatti, l’art. 17 legge 69/2019 apporta modifiche all’articolo 13-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento psicologico per i condannati per reati sessuali, per maltrattamenti contro familiari o conviventi e per atti persecutori prevedendo che:
“1-bis. Le persone condannate per i delitti di cui al comma 1 possono essere ammesse a seguire percorsi di reinserimento nella società e di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati, organizzati previo accordo tra i suddetti enti o associazioni e gli istituti penitenziari”. Le persone possono sottoporsi a un trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno e la partecipazione a tale trattamento è valutata ai fini della concessione dei benefici previsti dalla legge. Ai sensi dell’art. 1-quater “I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati (…) sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti di cui al quarto comma dell’articolo 80 della presente legge.”
Comma così modificato dall’ art. 11, comma 1, lett. s), D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 123: “Per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, nonché di mediatori culturali e interpreti, corrispondendo ad essi onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate”.
All’art. 4 1-quinquies prevede che “il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza valuta la positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica di cui all’articolo 13-bis della presente legge.”
Una “positiva partecipazione”, cioè sulla basse di quali elementi e riscontri? O è positiva (in sé) la partecipazione?
In un quadro molto complesso il Codice Rosso rappresenta un tentativo di dare risposta al problema della violenza contro le donne e minori riconoscendo anche l’importanza di diversi interventi di cura degli autori di reato quali quello “psicologico con finalità di recupero e sostegno”, “l’osservazione scientifica della personalità”, “i programmi di riabilitazione specifica”. Appare interessante che si preveda una valutazione collegiale per un tempo definito (almeno un anno) mentre la positività della valutazione richiede ulteriori approfondimenti.
Quali condizioni per il trattamento?
A questo punto occorre chiedersi quali debbano essere le condizioni, le modalità, i riferimenti per rendere operativo quanto definito dalla legge. Se tali adempimenti siano assicurati dal servizio sanitario nazionale o da altre istituzioni, in particolare per tutti i soggetti con misure giudiziarie o cautelari presenti nel territorio.
Molte evidenze indicano l’importanza dell’educazione dei maschi, della prevenzione e trattamento dell’abuso e maltrattamento infantile (chi ha subito violenza, da adulto, rischia di agirla a sua volta). Poi vi è il tema della cura della qualità delle relazioni, delle dinamiche nelle convivenze. L’intervento sulle dinamiche relazionali intrafamiliari e di coppia è spesso tardivo dopo lunghi periodi di conflitti, allontanamenti e riavvicinamenti, aggressioni e perdoni, fraintendimenti, promesse e speranze amaramente e dolorosamente deluse. Il messaggio che ogni forma di violenza va fermata fin da subito come assolutamente inaccettabile tarda ad affermarsi.
In ambito specialistico è rilevante il trattamento dei disturbi di personalità antisociale e borderline e dell’uso di sostanze/alcool, le dipendenze compresa quella affettiva, nonché delle sindromi deliranti e paranoidee, attraverso diagnosi precoci e specifici percorsi di cura. Occorre sostenere a domicilio le persone con patologie gravi, croniche specie se con famiglie fragili onde prevenire la disperazione e la perdita di speranza alla base degli omicidi compassionevoli spesso associati al suicidio dell’autore. Quindi nell’ambito di un intervento più ampio vi è un ruolo dei professionisti della salute mentale. Per impostare correttamente il setting occorre chiedersi come intraprendere un percorso di cura, ancor più se vi è un possibile beneficio giudiziario. Questo può essere un’occasione sia in ambito territoriale che penitenziaro e la risposta dei servizi pubblici comincia ad essere presente. Ad esempio in Emilia Romagna sono attivi i servizi LDV “Liberiamoci dalla Violenza”, Centri per le Famiglie ma per svolgere, in tutto il Paese quanto previsto dalla legge, sarebbe utile vedere percorsi, organizzazione e risorse. Oltre a questo occorre riflettere come una richiesta di cura “incentivata” da un vantaggio secondario possa intrecciarsi con possibili dinamiche manipolatorie, lo sviluppo di “falsi Sé” ed altri fenomeni molto noti. Un rischio che tuttavia non può portare alla rinuncia ad offrire percorsi di cura ma per realizzarli correttamente sono necessarie ulteriori specificazioni tecniche e formali.
Infatti, le misure giudiziarie e la pena, oltre alla funzione retributiva e di protezione della comunità sociale, devono trovare una loro specifica esplicitazione circa le azioni di recupero da effettuare con l’autore di reato senza deleghe, magari in forma indiretta, ai servizi sanitari. In altre parole la componente rieducativa e sociale in riferimento ai comportamenti violativi della legge non può essere sostituita dal trattamento psicologico. Occorre invece che la misura giudiziaria realizzi un proprio ambito di intervento specifico e preservi il mandato di cura il quale esplorando dinamiche complesse e profonde, non può essere condizionato ma deve essere un processo libero e tutelato da interferenze. Solo così può realizzarsi l’obbligazione di mezzi ma non di risultati della cura che può divenire una componente di un trattamento di comunità che si prende cura delle vittime, di quelle “secondarie”, dei minori coinvolti, dei parenti.
A mio parere servono approfondimenti tecnico-scientifici al fine di sviluppare programmi territoriali e servizi penitenziari[6] efficaci, in grado di produrre nella persona consapevolezza dei propri comportamenti, delle loro conseguenze, assumendosene di responsabilità. Interventi ad approccio olistico che siano in grado anche di affrontare le questioni sociali, lavorative e del reddito, del futuro, dello stigma. Quindi non si può far dipendere il possibile, auspicabile cambiamento comportamentale dal solo trattamento psicologico.
Nel contesto di cura, vi è la necessità di avere regole chiare e aspettative e limiti espliciti da parte di ciascun attore del sistema. In questo quadro è necessario un “doppio patto” della persona, uno con la giustizia e l’altro per la cura. Patti che certamente potranno avere punti di contatto, obiettivi comuni e momenti di sintesi ma che si avvalgono di approcci e metodologie diverse. Se invece nell’ottica di una impostazione di “giustizia terapeutica” si delega alla psicologia o alla psichiatria il trattamento temo che si possa configurare un impianto confusivo e alla fine poco efficace. Occorre preservare e valorizzare il mandato di cura tenendo conto che questa può avvenire solo con il consenso e l’assunzione di responsabilità della persona.
La libertà deve essere condizionata ad impegni diversi dalla cura, relativi al proprio comportamento che non necessariamente deriva dal disturbo. In altre parole la psicologia affronta i vissuti e la componente psichica che sempre è presente in ogni reato e in questi casi sembra essere di maggiore rilevanza e proprio per questo è necessaria la massima chiarezza anche relativamente ai compiti di prevenzione di nuovi reati e di controllo della sicurezza che spettano alle Forze dell’Ordine. La collaborazione tra giustizia e psichiatria deve svilupparsi senza che i professionisti debbano essere gravati dalla posizione di garanzia specie in relazione alle condotte tenute dal paziente, né dovrebbe esservi un obbligo di rapporto. Chi opera nel servizio pubblico è spesso costretto ad assumersi la cura di persone che non chiedono o sono scarsamente motivate al trattamento o nel caso specifico richiederlo strumentalmente. Il trattamento di una persona autrice di reato e a rischio di recidive per quanto attiene il programma di cura richiede la stipula di un contratto per realizzare al meglio le attività terapeutiche e il professionista va protetto da ogni conseguenza legale per quanto attiene gli atti o le violazioni compiuti dal paziente.
Dovrebbe inoltre essere esplicitato ex ante quali informazioni relative al trattamento è tenuto a dare al giudice nell’ambito di procedure che andrebbero meglio esplicitate e condivise come “protocolli” o “buone pratiche”. Tutti temi che riguardano anche i professionisti privati e che dovrebbero essere affrontati per cercare di curare nel modo più appropriato e sicuro possibile, per tutti, gli autori o potenzialmente tali, di gravissimi reati. Infine, bisognerebbe chiedersi quali siano le risorse giudiziarie, penitenziarie e sanitarie e formative necessarie al fine di dare applicazioni al Codice Rosso. Un punto che la legge pare avere dimenticato.
Pietro Pellegrini Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma
[1]htps://www.ilmessaggero.it/mind_the_gap/violenza_sulle_donne_giornata_25_novembre_stop_violenza_sulle_donne_mattarella-4885401.html
[2] Il numero della violenza e le forme della violenza. ISTAT https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famiglia/numero-delle-vittime-e-forme-di-violenza. Ultima visita 24 novembre 2019
[3] “Sintesi Rapporto EURES “Omicidio in famiglia” Eures Ricerche Economiche e Sociali, 28 giugno 2019 https://www.eures.it/sintesi-rapporto-eures-omicidio-in-famiglia/. Ultima visita 24 novembre 2019
[4] “L’omicidio volontario in Italia, Rapporto EURES 2013” (pag 194-5)
[5] La falla del codice rosso che frena gli arresti per violenza sulle donne di Luigi Ferrarella Corriere della Sera La 27ora https://27esimaora.corriere.it/19_settembre_21/falla-codice-rosso-ba4b9a76-dc9e-11e9-95a3-10409ad8b828.shtml)
[6] Giulini P., Xella CM, Buttare la chiave? La sfida del trattamento per gli autori dei reati sessuali, Raffaello Cortina Ed, 2011
fonte: SOS Sanità