Le confessioni dello scrittore vittima di depressione accendono i riflettori sulla brutalità del Tso. Ne parla l’antropologa Silvia Jop, nipote di Franco Basaglia intervistata da Daniele Zaccaria.
Lo scrittore Paolo Cognetti ha raccontato pubblicamente il calvario della sua depressione e le condizioni estreme e brutali del Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) a cui è stato sottoposto per “curare” la sua sindrome bipolare con fasi maniacali. L’ambulanza che lo viene a prelevare a casa accompagnata dalla polizia perché ha saltato una visita, il personale medico che in ospedale lo circonda impedendogli di tornare a casa, i bicchieroni di tranquillanti, gli infermieri che lo legano alle sbarre del letto mani e piedi con un siringa piantata nella gamba lui che galleggia in un perenne stato di sonno, lasciato lì come un giocattolo rotto. E il passaggio, fondamentale, di confessare il proprio dolore, di non provarne vergogna. Parole toccanti che aprono uno squarcio sull’Italia dei “matti da legare” e su un sistema che ancora oggi non riesce a liberarsi di quell’idea antica. Ne parliamo con Silvia Jop, antropologa, autrice di saggi e documentari sul tema della cura del disagio psichico e nipote di Franco Basaglia, l’uomo che rivoluzionato il modo di trattare i disturbi mentali chiudendo i vecchi ospedali psichiatrici.
Quanto è difficile parlare della propria malattia?
Per fortuna, un po’ alla volta, accade che le persone raccontino di situazioni come quella vissuta da Cognetti, situazioni che rimangono invisibili fino a quando non ci ammaliamo noi stessi o qualcuno a cui vogliamo bene. Il trattamento che gli è stato riservato è lo stesso riservato a qualsiasi persona nata in questo paese e che ha la sfortuna di incontrare un servizio sanitario che lega ancora gli individui. Certo, in Italia ci sono anche buone pratiche, luoghi in cui la contenzione non viene utilizzata, ma viviamo anche un momento di chiara regressione in cui l’approccio contenitivo si fa largo anche i realtà che un tempo erano considerate “zone felici”.
Cognetti ha parlato ai giornali della sua condizione, può essere l’occasione per una riflessione pubblica sulle tante persone che come lui devono passare per un Tso?
Si sta chiudendo l’anno del centenario di Franco Basaglia e in Italia coi sono state celebrazioni in tutte le salse, sia in contesti culturali sia in contesti sanitari. Ma nella realtà di tutti giorni dei temi a cui Basaglia ha dedicato una vita se ne parla poco o quasi mai. È indispensabile che persone note al pubblico possano illuminare una condizione altrimenti ignorata. È ugualmente importante che anche chi fa il mestiere del giornalista vada in cerca di storie per mostrare cosa davvero accade all’interno degli Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, ndr). Siamo abituati a dare per scontato che la realtà abbia una forma e che la forma non possa essere che quella, per cui in molti sono convinti che l’unica soluzione per una persona che ha una crisi acuta psicotica sia legarla a un letto e riempirla di psicofarmaci. Questo non vuol dire che il trattamento farmacologico non sia importante, ma l’uso è ben diverso dall’abuso
Esistono dei casi in cui quel tipo estremo di contenzione si rivela necessario e non ha alternative?
Io non sono una psichiatra per cui non posso rispondere come chi si occupa dal punto di vita medico di quei casi estremi. So però che ci sono diverse strutture in Italia dove l’uso della contenzione sta a zero. Mi sembra logicamente improbabile che in quelle strutture i pazienti non stiano tanto male quanto in quelle in cui vengono legati. C’è stato da poco a Roma un Forum nazionale (ndr: si tratta della II Conferenza nazionale autogestita per la salute mentale) di realtà che da tutto il paese si sono ritrovate nel ragionare su come funzionino i servizi territoriali, sui pochissimi fondi a sostegno delle necessità dei cittadini, su come vengono organizzati nel sistema pubblico ma soprattutto privato i reparti per la salute mentale, Il dilagare dell’uso della contenzione è in tal senso evidente, c’è bisogno di una rialfabetizzazione culturale sul tema della cura delle malattie mentali.
Questo riguarda anche e soprattutto il personale sanitario?
Assolutamente; il fatto è che siamo di fronte a una matrioska di problemi: per offrire servizi sul territorio e implementare il servizio all’interno delle strutture significa finanziare la sanità pubblica. Dopodiché è anche vero che a un certo punto interviene la responsabilità individuale tra chi svolge il ruolo di cura e la persona che in quel momento è portatrice di un disagio. Occuparsi di chi ha una grossa crisi psicotica richiede un impegno e un numero di ore superiore alla media, legare qualcuno e stordirlo con le medicine “rivolve” velocemente il problema
Riuscire a parlare dei propri problemi mentali può essere un elemento di consapevolezza verso la guarigione?
La guarigione è un concetto relativo, il problema è che dovremmo avere il coraggio di dire che tutti noi stiamo un po’ bene e stiamo un po’ male e a volte si sta male in maniera seria. Altrimenti avremmo meno potere nel dire come vogliamo essere trattati quando stiamo male. Raccontare il dolore è un primo passo ottenere diritti civili condivisi, ma dobbiamo anche occuparci delle risposte che cerchiamo quando stiamo male per non alimentare una cultura che ritiene un fatto secondario legare un malato alle sbarre del letto.