Quando prospetta una nuova organizzazione dei servizi di salute mentale, Fabrizio Starace sa di cosa parla perché in Emilia Romagna l’integrazione tra le articolazioni sul territorio sono già una realtà. Direttore del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche di Modena, ha appena pubblicato il volume «La salute mentale nell’Italia del regionalismo».
Eleonora Martini intervista Fabrizio Starace
Professore, le proposte di legge depositate sono molto diverse tra loro ma puntano tutte ad una riforma della legge 180/1978. Perché c’è bisogno di rimettere mano alla riforma Basaglia?
Due motivi complementari. Il primo è che, come spesso accade, le leggi vengono applicate solo parzialmente. Come ampiamente dimostrato infatti ci sono enormi disuguaglianze interregionali, intere aree del Paese nelle quali il diritto alla salute mentale è solo sulla carta. Dall’altro c’è da prendere atto che un dettato normativo articolato relativo alla salute mentale non è mai stato promosso dal governo centrale. La legge 180, recepita poi nella 833, a cui facciamo riferimento, riguarda esclusivamente tre articoli: la chiusura degli ospedali psichiatrici, l’istituzione dei Servizi di diagnosi e cura, il trasferimento delle attività sul territorio e la regolamentazione del Trattamento sanitario obbligatorio. E solo con dei provvedimenti successivi di rango inferiore, cioè Dpr, sono stati approvati i cosiddetti progetti obiettivo che delineano l’organizzazione e le risorse del Dipartimento di Salute mentale. Dalla modifica del titolo 5º della Costituzione del 2001, la modalità organizzativa è passata in capo alle singole Regioni, da cui lo sviluppo a macchia di leopardo.
In 50 anni sono cambiate tante cose, dalla famiglia alle nuove sintomatologie. Come si deve evolvere allora la normativa?
In effetti oggi le famiglie mono nucleari sono più frequenti e quello che una volta era il più efficace sistema di welfare viene meno. Non solo: per fare un esempio, nel Dpr del 1999 sull’organizzazione dei Dsm si parlava esclusivamente di salute mentale per gli adulti. Oggi affrontare il tema nella sola prospettiva degli adulti è antistorico e antiscientifico perché sappiamo che vi è una stretta continuità tra l’età infantile adolescenziale e l’età adulta, e che è necessario intervenire sempre più precocemente. E ancora, sappiamo che la coesistenza di disturbi psichiatrici e di abuso di sostanze – tutte, legali e illegali, da quelle pesanti all’alcol e la cannabis, fino al vastissimo mondo delle droghe sintetiche – è divenuta la norma, non più l’eccezione. Quindi un primo tema – che però purtroppo non viene raccolto in modo definito in nessuna delle proposte che sono al vaglio della Commissione sanità del Senato – è quello di immaginare delle strutture dipartimentali che si occupino della neuropsichiatria infantile e adolescenziale, della salute mentale degli adulti e delle dipendenze patologiche. Un dipartimento integrato per evitare la sindrome del ping pong, dove la pallina è il povero paziente che viene sballottato da una parte all’altra senza trovare una soluzione personalizzata.
Tra i ddl dell’opposizione e quelli delle destre ci sono differenze soprattutto di approccio: da un lato si pone l’accento sulle libertà del paziente e si insiste sulla centralità dei servizi territoriali, dall’altro tutto ruota attorno al concetto di sicurezza dei “sani”, fino a riesumare perfino la contenzione. Poi c’è la questione del Tso: se deve essere di 7 giorni invece di 15, reiterabile o meno…
Questa davvero è una questione di lana caprina, perché anche oggi il Tso può essere protratto ben oltre i sette giorni. C’è però una grande differenza tra le regioni, in alcuni casi oltre il 100%, in termini di applicazione del Tso. Al sud la frequenza del Tso è più contenuta rispetto al centro nord.
Perché non ci sono neppure posti a sufficienza negli Spdc?
Oppure perché funzionano bene i servizi territoriali. In ogni caso, Sicilia e Sardegna fanno eccezione: se il valore nazionale è di 10,3 ricoveri per Tso ogni 100.000 abitanti adulti all’anno, nelle due isole il dato supera il doppio, stando ai dati del 2021, gli ultimi disponibili. Come pure vanno oltre il doppio i dati dell’Umbria. Mentre molto al di sotto della media nazionale sono la Val d’Aosta, la Basilicata, il Molise, la Provincia autonoma di Bolzano.
Spiega il ddl Sensi e Bazoli che dopo il 1998 è molto cresciuto il numero dei posti di residenza: dai 17.000 circa di allora alle quasi 29 mila persone ospitate a vario titolo nelle strutture residenziali, secondo i dati ministeriali. E si allungano anche i tempi di permanenza. È un trend dovuto solo alla carenza di strutture territoriali efficienti?
Parliamo di 57 ricoveri ogni 100.000 abitanti: un dato doppio rispetto al progetto obiettivo del 1999, che indica la necessità di rivedere i parametri lì indicati. E anche la durata di degenza è notevole: quasi tre anni. Ma questo elevarsi dell’uso della residenzialità avviene da 10 o 15 anni questa parte, da quando abbiamo assistito alla riduzione del personale dei servizi territoriali. All’inizio di questo secolo, infatti, all’incirca nel 2001, nei servizi di salute mentale pubblici si contavano più operatori di oggi: attualmente il personale è di 30.101 unità, allora era di oltre 31 mila. Nel frattempo però in questi 15 anni si è registrato all’incirca un raddoppio dell’utenza in carico.
Dovuto al fatto che crescono le richieste di aiuto oppure perché sono cresciuti i disagi mentali?
Sicuramente molte più persone che si rivolgono ai Dsm. Ma questo è in parte legato a un incremento dei disturbi psichiatrici comuni. Mentre la prevalenza dei disturbi gravi rimane sostanzialmente costante negli anni. Sicuramente c’è una maggiore consapevolezza e un minore ostacolo costituito dallo stigma, dalla vergogna, dall’isolamento. Ciò nonostante i servizi pubblici si trovano oggi in una situazione di sofferenza gravissima nell’ambito di quella che possiamo chiamare “tecnologia umana”. La salute mentale infatti non ha bisogno di strumentazioni sofisticate o costose per funzionare, non c’è bisogno della robotica chirurgica o della risonanza di ultima generazione. Ha bisogno di persone capaci, competenti, ben formate, motivate e in numero adeguato per garantire a ciascun utente lo stabilirsi di una relazione terapeutica e per fare gli interventi necessari. È grave che oggi non siamo in grado di mettere in atto tutte le modalità terapeutiche che sappiamo essere efficaci. È come se fossimo infettivologi che devono curare dieci persone avendo a disposizione una sola scatola di antibiotico.
E in mancanza di risorse umane non rimangono che gli psicofarmaci.
I servizi oggi vengono considerati solo dei dispensari di pasticche, e viene meno invece tutta la ricchezza che ha caratterizzato la riforma psichiatrica nel nostro Paese, ossia la ricerca di un progetto personalizzato che si occupi non soltanto dei sintomi ma delle cause ambientali, sociali, relazionali, personali. Oggi si parla tanto dello psicologo di base ma non della necessità di rafforzare i servizi di salute mentale con quelle competenze psicoterapiche che sono fondamentali per il trattamento dei disturbi gravi. In assenza di queste competenze, inevitabilmente, l’unico trattamento sarà quello farmacologico.
L’ignoranza, lo stigma e la paura sono però ancora molto diffuse. Non ci sarebbe bisogno di una massiccia campagna informativa?
Non è solo questione di informazione, perché se il servizio è efficiente non ha bisogno di aspettare la richiesta d’aiuto del malato o dei suoi stretti familiari, come è attualmente, con le conseguenti situazioni di abbandono e di aggravamento fino all’intervento del pronto soccorso o delle forze dell’ordine. Se invece il Csm, messo in allerta, potrà iniziare un lavoro di rete – con lo psicologo, i servizi sociali e i tecnici della riabilitazione – si potrà evitare di chiudere le persone dietro una porta sbarrata e provare ad alleviare il loro dolore. Migliorerebbe la salute di tutti.
fonte: il manifesto
fonte immagine copertina: https://informareunh.it/category/lavoro-di-cura/