Qualcosa si muove nella salute mentale ma in una direzione sbagliata. di Antonello D’Elia

La psichiatria e la salute mentale in Italia non cessano di dar luogo a dibattiti e polemiche. Dopo migranti, aborto e questioni di genere la follia e i folli sono un altro tema sensibile, di quelli che agitano gli animi alla ricerca di consensi attraverso provvedimenti restrittivi, punitivi e limitativi delle libertà personali.

Nelle ultime settimane il D.D.L. a firma Zaffini e di un folto numero di parlamentari della destra governativa ha trovato eco in un articolo di Dell’Osso e Bondi su Quotidiano Sanità a cui hanno replicato in tanti. Vorrei aggiungere un contributo alla riflessione su un ambito che, va detto, risponde all’oggettiva esigenza di porre rimedio a una situazione della sanità pubblica e della salute mentale diventata inaccettabile. Le critiche al DDL evocano lo spettro manicomiale, per tanti versi per altro silentemente già riprodotto da tempo mediante lo spostamento dell’assistenza e delle risorse dalla presa in carico al ricovero; oppure ne affrontano, con puntualità, la sostanza con argomenti analitici volti a mettere a fuoco quanto è problematico in termini di diritti, costituzionalità e reale sostenibilità finanziaria  nonché la sostanza stessa di una psichiatria territoriale pubblica sbilanciata sulla difesa dalla violenza dei  pazienti psichiatrici. A questa via analitica vorrei affiancare delle considerazioni sulla complessa operazione confusiva che sottende sia la proposta di legge che le sollecitazioni securitarie delle due esponenti della SIP. Qualcuno affermava che in assenza di capacità di convincere bisogna confondere: questo è quanto mi pare traspaia dall’apparente buon senso che anima le soluzioni avanzate. Prendiamo gli argomenti della lettera di Dell’Osso e Bondi. Da un lato si indica, con il sostegno di dati statistici, l’aumento di atti aggressivi nei confronti del personale sanitario che vede la psichiatria superare per numeri e qualità degli eventi altri contesti di medicina pubblica. In parallelo si lascia intendere che sia in corso una ‘epidemia’ di violenza ad opera di pazienti psichiatrici, conseguenza anche dell’aumento di malattie mentali diagnosticate propiziato e/o arricchito dalla diffusione di sostanze psicotrope da abuso, argomento già sostenuto da Dell’Osso alla sua elezione al vertice SIP. Dall’altro si lamenta la drammatica carenza di personale dei servizi a cui porre rimedio (come, con quali risorse non si dice) sollecitando lo Stato a intervenire a difesa degli operatori. Non tralascerei l’opinabile argomento che la lamentata fuga dal SSN sia dovuta all’aumento del rischio di morte o lesioni e non alle condizioni miserrime di superlavoro del personale, alla scomparsa di una progettualità vocazionale per la cura della sofferenza sostituita dalla gestione di comportamenti e sintomi, alla scarsissima competitività retributiva rispetto ad altre offerte privatistiche ‘a cottimo’. E neppure darei per scontato l’uso della tematica del genere femminile più esposto alla violenza, come se fosse specifico della professione psichiatrica (o infermieristica) e non una più drammatica realtà sociale. Il centro della loro argomentazione rimane una non ingenua confusione tra i bisogni di salute della popolazione e il ‘bisogno’ di posti letto, per acuti, per giovani, per autori di reato. Insomma, alla fine la soluzione è sempre la stessa: letti, luoghi fisici, spazi dedicati. La svolta immobiliare della psichiatria non è certo originale; più ambiziosa mi pare la mistificazione opportunistica di queste proposte visto che non mi risultano competenze e studi specifici sull’analisi dei bisogni della popolazione confrontate ai bisogni degli psichiatri. Non dovrebbe essere impossibile attingere alla gran mole di studi che mettono in luce il nesso tra violenza istituzionale e violenza ambientale, tra il livello apparentemente scontato e accettato della prima e quello sempre sanzionabile della seconda: si pensi a quel che avviene nei CPR o nelle carceri. E neppure sarebbe vano storicizzare gli eventi violenti per capire, tipizzarli, coglierne il senso per correre ai ripari. Un nesso, ovviamente, non vuol dire causa ed effetto, ma un rapporto complesso, articolato, non per questo non suscettibile di  da analisi. Come non vedere allora la connessione tra lo spopolamento dei servizi psichiatrici, di persone, di saperi e saper fare, e la lenta e inesorabile rinuncia a una psichiatria della presa in carico, del contatto, a favore della distanza oggettivante, l’indifferenza per la cura della relazione e della negoziazione e la scelta di privilegiare l’agito farmacologico, la contenzione, il ricovero e l’accertamento obbligatorio come soluzione correttiva e repressiva. Il rapporto tra violenza e malattia mentale è una delle ossessioni storiche della psichiatria nosografica organicista, base teorica di scelte operative difensive e repressive. La ambigua novità della declinazione contemporanea di questa posizione sta nell’alternare argomentazioni di matrice sociale e organizzativa con quelle storiche del realismo ingenuo psichiatrico: vecchi argomenti vestiti di temi che provengono da tutt’altra tradizione culturale e operativa. È in aumento la violenza connaturata alla malattia mentale o sono in aumento le persone che nella distanza ambientale, relazionale, umana, professionale, organizzativa, volgono in agiti la loro sofferenza? Una psichiatria comunitaria che non ha più connessioni con la comunità, che non ha più persone e strumenti per accostarsi a pazienti e famiglie con competenze mature non è forse la premessa per una polarizzazione tra il ‘Noi’ degli operatori e il ‘Loro’ dei malati? Un passaggio logico che viene subordinato alla priorità delle richieste concrete: più letti e più forze dell’ordine a difesa dell’incolumità degli operatori. Non si tratta di negare un problema, è ovvio, ma di comprendere e trovare risposte coerenti, specifiche, storicizzate rispetto ai cambiamenti sanitari e sociali in corso e non riproponendo mantra astorici.

Un’ultima nota riguarda il D.D.L. Zaffini che, a mio parere, fa ricorso, in forma ampliata e con i crismi di una proposta legislativa, alla stessa ambiguità confusiva, al punto che a una lettura delle premesse si fa fatica a comprenderne il nucleo propositivo e addirittura il riferimento teorico e concettuale a cui si ispira. Gli argomenti offerti oscillano tra una esposizione dei determinanti sociali della malattia mentale e una descrizione della drammatica crisi dei servizi psichiatrici e della loro capacità di risposta in numeri e competenze rispetto alla diffusa sofferenza ambientale per arrivare al vero punto: la riproposizione del tema della violenza dei pazienti, della difesa degli operatori e dei familiari, e le soluzioni interventistiche richieste per legge. Come in una bambola russa infatti, procedendo nell’analisi della proposta, non si fatica a sentire una voglia d’ordine, una sapiente combinazione di questioni diverse scelte per soddisfare tutti ma che sono solo premessa per legiferare su protezione e incolumità di operatori accostata, strizzando l’occhio, a quella dei familiari, tutti vittime da proteggere anche prevenendo la ‘inspiegabile’ violenza dei folli e adottando le “misure di sicurezza pubbliche necessarie”. Tra le righe, compare, ben confezionata e celata dietro una proclamata difesa del servizio pubblico, anche qualche soluzione che va per l’orientamento privatistico verso cui sta procedendo il Servizio Sanitario Nazionale.

Rimane la convinzione, per la verità non appannaggio della sola destra di governo, che l’involuzione dei modelli della psichiatria territoriale italiana degli ultimi due decenni, vada affrontata per via legislativa, nel nome di princìpi che correggano la 180 o rileggendola in chiave securitaria o rilanciandone l’attuazione. Mai attraverso effettive misure economiche e sostegni pragmatici, finalizzati a un rilancio di valori, a un ripensamento critico degli strumenti e dei saperi applicati, a una formazione che non sia un ammaestramento standardizzato e al coinvolgimento reale dell’unica vera risorsa di cura che è quella degli operatori, delle persone sofferenti e della loro famiglie. La soluzione partecipativa, nucleo concettuale, etico e politico di quella che è ancora la legge che regolamenta l’assistenza psichiatrica in Italia, è un lontano ricordo e i tecnici e funzionari del consenso hanno ancora una volta campo libero per proporre e imporre un’idea di psichiatria e di salute contro la quale non cesseremo di batterci.

Antonello D’Elia, presidente della Società Italiana di Psichiatria Democratica

 

 

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