Gentile dottore,
da diversi mesi ormai non frequentiamo più la sua sala d’aspetto al Dipartimento Salute mentale e dipendenze né la sua casella mail: nel caso se ne sia accorto, immagino ne sarà sollevato.
Abbiamo smesso, dopo la sua ultima risposta risentita, di insistere perché nostro figlio – lei forse ricorda quel ragazzone non-collaborante ed elusivo, dall’infanzia travagliata e dal presente incerto, sempre in bilico fra rabbia e spavento, arroganza e sconforto, malattia e malinconia – avesse tutte le cure a cui ha diritto, quelle cure che la Carta dei servizi del DSMD elenca con scrupolo e nei dettagli.
Ammetto che in questi tre anni e mezzo nostro figlio ha avuto da voi svariate cose: ha avuto diagnosi, anche se non tutte uguali tra loro (ma si sa, la mente è un mistero); ha avuto farmaci (anche se non proprio gli “interventi integrati multiprofessionali e percorsi mirati” promessi dalla Carta) che a volte sono stati efficaci, almeno sul momento; ha avuto appuntamenti (anche se non proprio la “presa in carico continuativa, intensiva e a lungo termine” con “modello assistenziale ad alta integrazione” di cui parla la Carta) che talvolta ha saltato, e che talaltra si sono conclusi con qualche frustrazione anche per lui; ha avuto qualche assicurazione di inserimento socio-lavorativo, poi sfumata un po’ per contingenze avverse (personale insufficiente, risorse limitate, momento difficile, dilazione ripetuta) e un po’ per la scarsa affidabilità del soggetto (un non-collaborante affidabile è una contraddizione in termini, certo, ma non si può pretendere l’impossibile: non è così?). E ancora, nostro figlio ha avuto lei, un medico (uno solo, e non “l’équipe multiprofessionale e multidisciplinare” garantita sempre dalla Carta) giovane e coscienzioso ma già ben provvisto di realismo e disincanto.
E anche noi, i genitori, abbiamo avuto la nostra parte: il privilegio di avere (dopo l’iniziale avvertimento: la sacrosanta privacy non consente comunicazioni con la famiglia, che pure la Carta definisce “risorsa di salute in continuo dialogo con l’istituzione, dove il dialogo rappresenta lo strumento di conoscenza dei bisogni”) più e più volte udienza da lei, che quindi ha visto e sentito la nostra preoccupazione, il nostro disorientamento, il nostro dolore. E più e più volte, è vero, e spesso con la gola stretta dall’angoscia, le abbiamo scritto: troppe volte, forse, e con troppa petulanza, se alla fine siamo risultati molesti.
Si sa, sono difficili i pazienti come nostro figlio, i ragazzi che vivono sul confine e al margine, ingarbugliati in grovigli di sintomi, di inganni, di alibi; né sani né malati; problematici, disarmonici, confusi, feriti; con disagi, disturbi, disperazioni (e lei lo sa, dottore, ogni giorno ce ne sono di più come lui, nelle aule di scuola, per le le strade, nelle piazze e in luoghi meno piacevoli, in quest’epoca di passioni sempre più tristi). E si sa pure che altrove – anche abbastanza vicino a noi, poco oltre l’Appennino – l’approccio nei confronti di questi ragazzi è diverso, è meno prevalentemente farmacologico (“le visite a domicilio sono impossibili”), meno semplicistico (“i traumi infantili non c’entrano nulla”), meno sbrigativo (“denunciàtelo, è l’unica soluzione”), meno tagliente (“non c’è nulla da fare, è un disadattato sociale”), meno disperato (“sono tratti caratteriali, sarà così per sempre”).
Alla fine, nostro figlio si è allontanato dalle cure, e lei ha risposto piccato alla nostra ultima mail. Magari, chissà, lei lo ha cercato e lui non ce lo ha riferito – come si è detto è un non-collaborante e come tale non collabora. In ogni caso alla fine lei ha evidentemente rinunciato a curarlo, ad aiutarlo, e a onor del vero non è stato l’unico: sono tanti coloro che avrebbero avuto il dovere di fare e non hanno fatto, che hanno promesso e non hanno mantenuto, che hanno rassicurato e si sono dileguati. Siamo rimasti soli, è un fatto.
Tuttavia per lei, dottore, il discorso ci pare diverso: lei è uno psichiatra, per lei la pratica quotidiana della speranza (per parafrasare il titolo di un saggio illuminante sulla psichiatria pubblica) dovrebbe essere paradigma e consuetudine. Lei non può cedere, non può rassegnarsi a non aiutare, a non curare chi soffre, anche se costui non collabora, anche se mistifica, manipola, recalcitra, sfugge, scappa. Lei è uno psichiatra.
Ogni volta che – anche ora che qualche spiraglio di luce si vede, e non pareva possibile in tanto deserto e in tale solitudine – ripenso al calvario di nostro figlio e della nostra famiglia (così simile al calvario di tante altre famiglie, di tanti altri ragazzi), mi risuona in mente la domanda di uno psichiatra valoroso (basagliano, direttore dell’ospedale psichiatrico pistoiese alla vigilia dell’attuazione della legge Basaglia), il quale nelle proprie memorie racconta un errore commesso nei confronti di un bambino, riconosce una mancanza di attenzione e tenerezza, e si rammarica e si rimprovera: “avrei dovuto cercare di comprendere […] e in qualche modo aiutarlo. Se no, perché diavolo ero psichiatra?”.
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