Giovedì 16 marzo ci ha lasciato a 81 anni Franco Rotelli, direttore dei servizi di salute mentale di Trieste dal 1979, l’anno che Basaglia ha lasciato per Roma designandolo suo successore.
Era nato a Casalmaggiore, in provincia di Cremona; nel 1967 pubblica sulla rivista “Sistema nervoso” uno studio nel quale assume una posizione di critica epistemologica radicale nei riguardi de La personalità psicopatica di Kurt Schneider. Nel 1969 lavora presso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Castglione delle Stiviere, da dove nel 1970 raggiunge Franco Basaglia a Colorno, per poi seguirlo l’anno successivo a Trieste dove diviene primario nel 1973. Dopo aver lasciato il DSM nel 1995 nelle mani di Peppe Dell’Acqua, è per qualche tempo a Cuba nell’ambito della cooperazione internazionale. Poi ritorna come Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria di Trieste dal 1998 al 2001 e dal 2004 al 2010, e dal 2001 al 2004 dirige quella di Caserta. Eletto consigliere regionale in Friuli Venezia Giulia con il Partito Democratico nel 2013, è presidente della Commissione Sanità e Politiche Sociali fino al 2018, e ha così modo di estendere la posizione critica maturata verso l’ospedale psichiatrico, e il carcere alle RSA per gli anziani e ai Centri di raccolta per gli stranieri.
Non credo che sia stata una posizione facile la sua, quella di erede principale di una grande eredità umana, professionale e politica. Si trattava di conservare, non disperdere, tramandare il patrimonio delle pratiche instaurate da Basaglia; ma al tempo stesso metterle a frutto, mantenerle fresche anche nei tempi che cambiano, portare il discorso a compimento, perché nella storia si sa che ciò che sta fermo torna fatalmente indietro. Si trattava insomma per lui di saper serbare il patrimonio e insieme saperlo mantenere vivo. Credo che abbia fatto egregiamente l’una e l’altra cosa.
Basaglia e lui avevano vissuto gli anni della maturazione in due Italie diverse. Per l’uno si era trattato dell’Italia della guerra e del dopoguerra; un’Italia fatta di gravi ingiustizie e di una sensazione generale di miseria, di fatica, di sforzo e di riscatto. Per l’altro dell’Italia del boom economico e della fantasia al potere: c’era in lui la sensazione di avere spazio per una grande produzione di soggettività, di riproduzione sociale, di scambi e di ricchezza, che se meglio distribuita sarebbe stata abbastanza per tutti.
Oggi che ho appreso lui non c’è più, mi ritornano in mente alla rinfusa immagini, parole, incontri tra di noi in questi quarant’anni, e voglio provare, innanzitutto per me, a ripercorrerli.
Credo di averlo visto la prima volta al Réseau internazionale di alternativa alla psichiatria ”No man’s lands – Le terre di nessuno” a Roma, nel 1985. Partecipava, ma ne ho un ricordo nebuloso, a una tavola rotonda, con Franca Ongaro, Mario Tommasini e altri, sulla necessità di liberarsi dalla necessità del carcere. Era un tema che in quel periodo mi appassionava.
Circa due anni dopo fui molto colpito dalla lettura del suo intervento al convegno La pratica terapeutica tra modello clinico e riproduzione sociale, l’attualità della questione della deistituzionalizzazione, l’idea che il buon ospedale psichiatrico fosse quello vuoto e il buon Centro di Salute Mentale, l’istituzione “inventata” e ogni giorno da inventare di nuovo, quello pieno, caotico, vivo. Un luogo dove, come nel suq di Marrakesh, nulla sia stabilito a priori e tutto possa essere continuamente oggetto di negoziazione.
Poi ricordo di averlo visto a Firenze, doveva essere l’inizio degli anni ‘90, quando in occasione di un convegno sulle cooperative contro l’esclusione lanciò la formula dell’impresa sociale come evoluzione della cooperativa e del passaggio dal concetto di diritti garantiti a quello di diritti conquistati. Si trattava, insomma, come spiegò con De Leonardis e Mauri nel volume L’impresa sociale per Anabasi nel ‘94, di prendere quello che c’era di buono del modello d’impresa per vitalizzare una pratica del servizio pubblico e della cooperazione più o meno assistita, che rischiava di spegnersi nella pigrizia e nella burocrazia. Per me, che guardavo con sospetto al modello d’impresa e un po’ mi illudevo ancora, ingenuamente, che il fatto che un diritto fosse sancito per legge fosse sufficiente perché fosse rispettato, non fu facile comprendere la sua posizione.
Si trattava comunque, nell’uno e nell’altro caso, di animare situazioni che tendevano ad adagiarsi, scioccandole anche eventualmente, sorprendendo, usando quasi le parole, la formula felice individuata per la loro combinazione, come una forza fisica, materiale in grado di fare svegliare le cose quando si adagiavano e sospingerle faticosamente in avanti. Come un potente mantice che, ossigenandola, potesse ravvivare la fiamma; e questo è ciò che in parte ha fatto e in parte si è sforzato di fare, credo, per tutta la vita.
Quando lessi un sunto del suo pensiero nel libello Per la normalità. Taccuino di uno psichiatra, uscito anch’esso nel ‘94 e recentemente ripubblicato, ampliato – e recensito su questa rubrica (vai al link) – con il titolo Quale psichiatria? Taccuino e lezioni, a colpirmi fu soprattutto un passaggio, che per la verità risaliva al 1988, all’introduzione al volume di Dell’Acqua e Mezzina Il folle gesto, a colpirmi. Quello nel quale immaginava che di fronte a un delitto efferato dovrebbe accadere che: «curvandosi su una tale vittima giunta così lontano nella sua umana esperienza, il medico e il magistrato si considerino come davanti ad un silenzio assoluto, ad una totale assenza di opera, di cui avere però appunto “pietà”, e allora moltiplicare le forze e le energie a insieme combattere per far sì che un simile momento, una simile assenza, non possano tornare ad essere mai più in quel soggetto». Da allora credo di avere citato infinite volte queste parole, con le quali il mondo della giustzia e quelli della psichiatria, forense e civile, dovrebbero sempre misurarsi io credo, se si vuole che tanto il giudice che il clinico si avvicinino alla tragedia estrema alla quale l’atto dell’uomo può arrivare non come qualcosa di lontano, di alieno e di astratto, ma come qualcosa di praticamente e umanamente vero. Se si vuole che si avvicinino ad esso in modo autentico e onesto, fraterno.
Credo che il nostro primo incontro di persona sia avvenuto nel corso delle due settimane che trascorsi a Trieste nel ‘98, quando lui aveva ormai lasciato la direzione del DSM e correva voce che intendesse passare alla Direzione Generale della ASL.
Gli chiesi di poterlo intervistare e le mie curiosità erano tante: il suo lavoro al fianco di Basaglia, le sue valutazioni sulla psichiatria del nostro tempo, queste sue idee originali e dirompenti che avevo letto o ascoltato negli anni precedenti, la sua scelta, per me allora poco comprensibile, di lasciare lo specifico psichiatrico per passare a occuparsi di politica sanitaria complessiva, le sue idee in tema di responsabilità penale, l’impegno contro l’istituzione carceraria, quello di Trieste in quel momento in America Latina e nella ex Jugoslavia.
Mi aveva concesso l’intervista, che ebbe luogo di persona accanto a un registratore, senza nessun problema e aveva accettato di rispondere a ogni domanda. Io ero affascinato dalle sue risposte: l’eleganza dell’eloquio e lo sforzo di plasmare quasi materialmente le parole e le frasi per per capire e per farsi capire, ottenere che il concetto colpisse l’interlocutore e fosse da lui metabolizzato e fatto proprio. Per pubblicarla scelsi un titolo che mi pareva che bene si prestasse a rendere conto del contenuto: Oltre il muro, con uno sguardo al mondo. Oltre il muro del manicomio, ovviamente; ma anche oltre il muro di ogni altra istituzione, della nazione, della disciplina o dell’ideologia. Così mi pareva che si muovesse il suo pensiero radicalmente aperto e libertario. E con uno sguardo sul mondo, il mondo dei giovani che avevo incontrato in quei giorni e parevano darsi appuntamento proveniendo da ogni luogo e parlando gni lingua al San Giovanni; e il mondo che aspettava, e aspetta spesso ancora, l’esponente basagliano che vada lì non a insegnare, ma ad aiutare a crescere raccontando una storia faticosa ma a lieto fine. E anche il mondo del quale, tutta intera, mi pareva che quell’intellettuale impegnato, forse già un po’ d’altri tempi, avvertisse su di sé e sul suo gruppo la responsabilità La pubblicai una prima volta in un libro collettaneo scritto per il ventennale della Legge 180, che cadeva quell’anno, per le edizioni “La Redancia”; e poi l’ho ripubblicata l’anno scorso nel libro Ritorno a Basaglia? (vai al link). Pensai, in questa seconda occasione, di poterla aggiornare chiedendogli di rispondere a qualche nuova domanda sugli ultimi vent’anni; ma poi decisi che mi piaceva troppo così per poterci rimettere mano, e non glielo chiesi.
Tempo dopo, in occasione del secondo Forum per la Salute Mentale che si tenne nel dicembre 2004 a Lucca, lo incontrai di nuovo e mentre parlava di chiusura dell’ospedale psichiatrico giudiziario e trasformazione degli articoli 88 e 89 del Codice penale, ricordo di essere stato colpito dal suo onesto pragmatismo quando enunciava quella che avrebbe dovuto essere in quel momento la linea: nell’impossibilità di superarli nel breve termine per legge, occorreva che ciascun servizio lavorasse a svuotare gli OPG per la sua parte, contendendo uno a uno con essi i pazienti e recuperandoli a una dimensione clinica, fino a lasciali vuoti. Anche quest’idea, come quella del Centro di Salute Mentale pieno e vivo, rimase uno dei capisaldi che mi ha aiutato a orientare, per quel che ho potuto e nella mia situazione, la mia personale pratica professionale e cercare di orientare quella dei miei gruppi di lavoro negli anni a seguire.
Poi lo incontrai altre volte e continuai a leggere quello che scriveva. Lo ricordo in particolare nel 2009, in occasione della presentazione del mio libro La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza in una libreria vicina a Piazza Indipendenza a Trieste. Era per me l’ospite più atteso, quello al cui giudizio tenevo di più; ma se ne era stato tra il pubblico come un lettore qualsiasi. Ci salutammo all’uscita e lo vidi intimamente soddisfatto, commosso non per il contenuto del libro, che aveva appena avuto in mano, ma per il fatto che un libro su quell’argomento, che tentava di ricostruire e far conoscere torti e soprattutto meriti che erano caduti nell’oblio, fosse stato scritto. Mi parve di cogliree in quel momento nella sua soddisfazione l’espressione dell’autenticità della sua passione politica, dell’antifascismo e dell’amore per la libertà che erano in lui intimamente radicati, anche solo in uno sguardo di approvazione e una stretta di mano. Credo che avesse una grande capacità di fare avvertire la consonanza nel sentire e nel pensare non tanto con le parole, raramente scandite e più spesso un po’ pronunciate come tra sé e sé, come se faticassero a staccarsi e rendersi autonome dal pensiero nel quale si stavano forgiando, ma con l’espressione.
O almeno parve a me in quell’occasione.
Lo rividi a Genova intorno al 2015, quando mi pare di ricordare che fosse stato lui a indicarmi tra i partecipanti alla tavola rotonda, in uno dei cortili interni dell’ospedale psichiatrico di Quarto, per la presentazione del suo L’istituzione inventata / Almanacco 1971-2010, una ricca testimonianza della vicenda triestina in parole e immagini pubblicata a Merano nella collana 180 dell’editore AlphaBeta Verlag, diretta dall’amico Peppe Dell’Acqua. Al termine dell’incontro mi ringraziò per la sintesi che gli era piaciuta e questo mi spinse a pubblicarla tra i primi articoli di questa rubrica (vai al link).
Uno dei nostri ultimi incontri è stato a Trieste, in occasione di una cena a tre con Giovanna Del Giudice, a un tavolo all’esterno di un ristorante sul canale; era appassionato dal progetto di una riscrittura della Legge 180 che aveva contribuito a presentare in Parlamento, nella quale fossero compresi aspetti organizzativi e relativi al finanziamento, la cui mancanza è stata in gran parte all’origine della sua faticosa applicazione.
Qualche settimana fa parlavo al telefono di lui con Mario Colucci e mi raccontava dello spazio a Trieste dove stava impegnandosi, con la passione di sempre, a raccogliere parole, ricordi, immagini della deistituzionalizzazione per farne un Centro di Documentazione, ancora fedele al duplice compito che si era assunto di essere insieme colui che conserva e colui che rilancia il ricordo. Dissi a Mario che mi sarebbe piaciuto incontrarlo e lui mi rispose che gli avrebbe fatto senz’altro piacere che visitassi questa sua ultima creatura. Lo farò appena possibile; lui non ci sarà per illustrarmela, ed è un peccato, ma spero che questo suo progetto possa comunque crescere ed essere utile a molti.
Ci ha lasciato un uomo al quale sento di aver voluto, in questi anni, più bene via via che lo ho conosciuto. Non credo che sia stato soltanto l’erede di Basaglia, ma anche colui che, oltre a lavorare per conservarne l’eredità, ha operato con straordinaria passione per metterla a frutto. Se Basaglia ha distrutto l’ospedale psichiatrico in Italia, a Rotelli credo che debba essere riconosciuto il merito di avere agito con acume tattico, insieme al gruppo degli altri “basagliani”, a completare l’operazione, conseguendo in anni fattisi più impervi l’obiettivo della chiusura dell’ospedale psichiatrico giudiziario, che era il luogo dal quale era partito. È stato, credo, in modo autentico un uomo buono e generoso, amante della giustizia sociale e operatore di pace, contrastando per quello che ha potuto insieme a ogni muro ideologico l’esclusione sociale, la risposta carceraria al delitto e la guerra tra le nazioni. Per fare questo, ha sempre cercato di tenere svegli, rendere umani e rilanciare animandoli i servizi e di tenere vivo e potenziare il mondo della cooperazione sociale, contrastando l’intrinseca tendenza alla burocratizzazione e al torpore degli uni e l’altro.
Ha cercato di dare, nell’ambito delle politiche sanitarie pubbliche, concretezza alla partecipazione alla programmazione e gestione delle azioni relative alla salute, attraverso il modello delle microaree, sperimentato negli ultimi anni a Trieste.
È stato un uomo gentile, e spero che il roseto che ha voluto sulla collina di San Giovanni possa ricordarlo a lungo ai triestini e ai visitatori che passeranno per di lì.
Ho scritto queste parole con l’intenzione di posare, come farò appena ne avrò l’occasione, una rosa rossa sulla sua tomba, e di stringermi in un forte abbraccio con tutti coloro che gli vogliono bene, oltre Peppe, Giovanna e Roberto innanzitutto; nella tristezza, ma anche nella determinazione.
fonte: http://www.psychiatryonline.it/node/9747