Era il 1988 quando fu approvato il codice di procedura per minorenni, ispirato a principi di ragionevolezza, adeguatezza alla età in formazione dei ragazzi sotto processo, minimizzazione dell’impatto penale e carcerario, contrasto alla stigmatizzazione del processo e della condanna. Ogni ragazzo o giovane è una vita in evoluzione che non ha ancora portato a compimento il suo percorso di maturazione e responsabilizzazione. Il carcere fa male a chi lo subisce. Fa male come esperienza in sé. Crea dolore. È una pena. E può costituire un ostacolo alle successive tappe di vita in quanto inchioda, a volta anche per sempre, una persona a un momento della vita.
Da quel 1988, fortunatamente, il sistema penitenziario minorile italiano si è contratto nei numeri. Da molti anni il numero complessivo dei ragazzi ristretti negli istituti penali per minori è intorno alle quattrocento unità, compresi coloro che hanno un’età tra i 18 e i 25 anni sempre che abbiano commesso il delitto quando erano minorenni. I fatti del Beccaria non devono essere strumentalizzati per giustificare passi indietro a una legislazione moderna, bensì per progettare ulteriori accelerazioni verso un modello sanzionatorio ancora più avanzato. Il campo della giustizia minorile è ricco di professionalità che ben possono chiarire come sono banalizzazioni argomentative quelle che spiegano i fatti di Milano come esito del sovraffollamento o dello scarso numero di poliziotti. Si tratta di interpretazioni fuorvianti.
Bisogna invece insistere su un modello pedagogico che metta al centro i bisogni educativi dei minori a costo di fare una fatica immensa. È questo il compito di una società che si pregi a definirsi adulta. Il vero passo in avanti sarebbe quello di costruire non solo un codice di procedura ma anche un codice penale che si fondi sull’interesse superiore del minore. Oggi abbiamo un codice penale che si applica a adulti e ragazzini, permeato di un’idea di pena e di società che nulla ha a che fare con qualsivoglia riflessione pedagogica e con la centralità dell’essere bambino, adolescente, giovane adulto. Il sistema dei reati e delle pene per gli adulti presente nel codice del 1930 non soddisfa minimamente il principio, sancito nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989, del superiore interesse del minore. È necessaria una diversa elencazione di reati e un ben più vario pluralismo sanzionatorio. Un furto di un ragazzino in un supermercato non può essere paragonato a quello in appartamento di una persona adulta. Il primo potrebbe essere depenalizzato, trattato civilmente, o affidandosi a risposte diverse. Ben potrebbe essere trattato fuori dal diritto penale.
Che senso ha punire un minore per il delitto di oltraggio? Un minore va educato fuori dalle galere. Il rispetto degli altri non si insegna chiudendo un ragazzo dietro le sbarre. Così lo si incattivisce. Un ragazzo non va punito per oltraggio, ma educato. Educare, non punire. E laddove vi è punizione questa non può essere la stessa prevista per un adulto. Non si tratta solo, come avviene oggi, di prevedere una durata inferiore alla pena della prigionia, ma di immaginarsi una diversificazione delle pene stesse, così lasciando al carcere una sempre maggiore residualità. È una bella sfida culturale, prima ancora che giuridica.
Affidiamoci alla saggezza di chi, come don Ettore Cannavera nella Comunità la Collina a Cagliari o don Gino Rigoldi a Milano, hanno investito energie e lavoro in progetti non carcerari dove episodi come quelli del Beccaria è ben difficile che possano accadere.
fonte: il manifesto – Antigone
fonte img in copertina: ACLI Cagliari