Nel suo recentissimo Ritorno a Basaglia?La deistituzionalizzazione nella psichiatria di ogni giorno*, Paolo Peloso in modo intenso, appassionato, ricostruisce e ripercorre una stagione di motivazioni, culture, ispirazioni, politiche, gesti, esperienze e scelte di vita, ricerche, studi, cambiamenti radicali non solo nei modi e nelle finalità del lavorare nell’assistenza psichiatrica ma anche, partendo dalla stessa, la spinta a provare a cambiare le relazioni fra le persone, tutte, una per una, in direzione della pienezza dei diritti di cittadinanza di ciascuna.
Paolo continua a incalzare, interrogare, citare, mettere a confronto i testimoni protagonisti in particolare delle esperienze di Gorizia, Parma, Trieste, Genova, esperienze pilota che si condussero in Italia nella seconda metà del XX° secolo e portarono a definire, dopo la chiusura dei manicomi, gli assetti di un possibile lavoro per la salute mentale. Molte di tali esperienze diffuse sul territorio nazionale comportarono spesso vere e proprie scelte di vita, grandi quantità di tempo, intelligenza, passione per alimentare e accompagnare una rivoluzione nelle pratiche professionali, insieme alla continua riflessione/verifica di quanto si stava producendo: parlo non solo di forti “vocazioni”, ma anche di disponibilità al sacrificio e ad una disciplina individuale e di gruppo quasi monastica. Tutto questo è rappresentato benissimo, con grande eloquenza ed efficacia da Paolo.
Ma se “la rivoluzione che ha chiuso i manicomi” ha avuto successo è perché, a partire proprio da Franco Basaglia, non ha mai snobbato né la politica né gli psichiatri italiani e la loro organizzazione scientifica, la Società Italiana di Psichiatria (SIP): anzi, ha perseguito una continua, serrata interlocuzione con Parlamento, partiti politici, sindacati, amministrazioni locali, associazioni professionali, mass media[1].Questo impegno ha consentito il primo grandissimo successo storico dell’uscita dell’assistenza psichiatrica pubblica dalla separatezza gestionale rispetto al resto della Sanità (i manicomi erano affidati alle Province) e della sua piena integrazione nel Servizio sanitario nazionale (Ssn), dentro la più larga mobilitazione per un diritto alla salute che comprendeva anche quella mentale. Fu questa scelta strategica a portare al recepimento della legge 180 nel maggio 1978 nella legge 833 istitutiva nel dicembre dello stesso anno. Nel Ssn continuano a stare insieme oggi, non sempre purtroppo sentendosi come a casa propria, psichiatri, psicologi, infermieri professionali, assistenti sociali, educatori professionali, volontari, associazioni di famiglie e utenti. Quanto alle relazioni con la SIP, in particolare quelle con Balestrieri, Carlo Lorenzo Cazzullo, Franco Rinaldi, Franco Basaglia le perseguì per diffondere il più possibile la sperimentazione e la messa a punto, sul campo, dei modi più efficaci di fare salute mentale città per città, villaggio per villaggio, e senza rinunciare alla radicalità del progetto. Aggiungo che senza il lavoro dell’AMOPI, l’associazione dei medici che lavoravano in manicomio, senza la legge stralcio 431 del 1968 che introdusse il ricovero volontario e restituì i diritti civili a migliaia di persone internate, senza la correlata diffusione delle pratiche antimanicomiali e la serrata interlocuzione con critici e oppositori, la legge di riforma non sarebbe arrivata in Parlamento e Bruno Orsini non avrebbe mai potuto esserne il relatore.
Il titolo Ritorno a Basaglia? si chiude con un punto di domanda, interrogandoci sui problemi che si incontrano, oggi, nel lavoro per dare attuazione alla “deistituzionalizzazione nella psichiatria”. A mio avviso, i blocchi, gli ostacoli vanno fatti risalire, per gran parte, sia alle indubbie difficoltà del progetto, sia al successo di alcune operazioni “strutturali” di contro-riforma e di re-istituzionalizzazione che hanno de-potenziato, deviato, svigorito l’impianto della 180 e della 833. Al riguardo, esplicito le seguenti considerazioni:
– La legge ebbe buona diffusa sperimentazione nella varietà delle realtà provinciali di cui è fatta l’Italia, ma non nelle grandi città. Basaglia, Pirella, Slavich ne erano consapevoli e per questo scelsero di misurarsi con la dimensione e la complessità dei problemi e dei poteri politici, accademici, professionali nelle grandi città a Roma, Torino, Genova, mentre Sergio Piro rimase nella sua Napoli. Fece eccezione Giovanni Jervis. L’esperienza di Basaglia a Roma fu durissima[2].
– Aspro terreno di confronto fu quello della formazione, di cosa bisognava insegnare, imparare, leggere, sapere per lavorare con efficacia nei Dsm per i nuovi obiettivi, fino al come bisognava essere e diventare come persone per poter essere efficaci nel lavoro di cura. Di qui l’esplosione dell’offerta di formazione da parte di innumerevoli scuole di psicoterapia e psicoanalisi- cito per tutti Pier Francesco Galli e la Scuola di via Ariosto a Milano; il lavoro di Tullio Seppilli antropologo a Perugia; il lavoro di documentazione e ricerca intorno al progetto “Prevenzione malattie mentali” guidato da Raffaello Misiti e Cristiano Castelfranchi presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Il cambio radicale delle modalità e delle finalità del lavoro che da assistenza psichiatrica diventava “salute mentale” richiedeva la rivisitazione e la ridefinizione dei saperi da trasmettere non solo ai medici psichiatri, ma anche a psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori, OTA, ASA. Per questo chi operava sul campo sentì l’urgenza di organizzare, cercare i nuovi apprendimenti spesso localmente presso i luoghi in cui si operava, o in centri quasi sempre fuori dai circuiti universitari. E qui l’esperienza di Trieste si costituì come luogo privilegiato di apprendimento “sul campo” di ciò che era indispensabile sapere per operare in servizi di salute mentale di comunità.
– Per anni, quindi, i corsi di laurea di Psicologia e Medicina e le Scuole di specializzazione dell’Università italiana continuarono a rilasciare lauree e diplomi, di solito rimanendo ai margini di una enorme quantità di domande di aggiornamento e formazione permanente dentro i nuovi luoghi di lavoro, e le nuove istituzioni della riforma sanitaria e psichiatrica, Questo fino a che l’Università si riprese la titolarità esclusiva della formazione dei professionisti con il DPR 10 marzo 1982, n. 162 Riordinamento delle Scuole dirette a fini speciali e dei corsi di perfezionamento, con la legge 19 novembre 1990, n. 41 Riforma degli ordinamenti didattici universitari, la legge 15 marzo 1997, n. 12 Ordinamento degli studi dei corsi universitari– artt. da 95 a118: per dire che il movimento che accompagnò la chiusura dei manicomi e l’istituzione del Servizio sanitario nazionale avendo come maestri persone come Basaglia, Maccacaro, Giovanni Berlinguer non riuscì a conquistare le Università, che anzi acquisirono il monopolio della formazione anche di infermieri professionali, assistenti sociali, educatori. Fra i registi più determinati di questa operazione va citato il prof. Adriano Bompiani (1923-2013), senatore della Repubblica dal 1976 al 1992. – Gli psichiatri accademici, che avevano conquistato la separazione delle proprie Scuole di specializzazione da quelle di Clinica delle malattie nervose e mentali, continuarono (e continuano) in grandissima parte ad ispirarsi esclusivamente all’approccio clinico alla malattia mentale e pretesero per sé posti letto per la formazione, separati da quelli dell’assistenza psichiatrica riformata. Fra le eccezioni ricordo Dario De Martis a Pavia e Michele Tansella a Verona. Gli ambienti psichiatrici universitari, in particolare quello della Clinica di Pisa, continuarono ad alimentare una campagna pressante contro il movimento riformatore accusato di essere ideologico, non-scientifico, velleitario, arrivando ad ispirare orientamenti politici in partiti di governo, in specie il PSI e il PLI. Le Università, insieme all’esclusiva della formazione, ottennero l’adozione del “numero chiuso” nei corsi, una scelta giusta in funzione dell’ottimizzazione della didattica, ma disattenta alle esigenze di quadri del Ssn, come oggi stiamo drammaticamente verificando. Al riguardo la responsabilità dell’attuale disastro è attribuibile al Servizio sanitario nazionale e alle Regioni che da molti anni hanno abbandonato il metodo della programmazione che comporta la conoscenza delle esigenze dei servizi, il provvedere per tempo al farvi fronte mettendo a disposizione le risorse necessarie. Ma certamente l’Università non si è proprio curata del problema.
– Altro intervento strutturale nel “cuore” del Servizio sanitario nazionale fu la decisione politica di estromettere i Comuni dal governo del Ssn per affidarlo alle Regioni. Tale scelta è risultata particolarmente infausta per il lavoro dei Dipartimenti di salute mentale (Dsm) – ma non solo, come sappiamo- che ha al centro le persone con le loro relazioni sociali ed affettive nella dimensione locale, con la stretta integrazione fra sociale e sanitario, ossia gli ambiti comunali nei quali l’autorità di riferimento è il Sindaco. Così i Sindaci hanno cessato di contare nella gestione del Servizio sanitario che si svolge nel territorio da loro amministrato (a parte la firma per il t.s.o. in quanto massima autorità sanitaria locale), e le scelte di governo del Ssn sono state appaltate ad Aziende sanitarie di dimensioni sempre più grandi che hanno favorito e sostenuto nella maggior parte dei casi la sanità ospedaliera a danno del lavoro per la salute nei territori e nelle comunità locali: come la pandemia da Covid e la sua gestione hanno drammaticamente disvelato impoverendo e ostacolando lo svolgersi delle relazioni interumane così vitali per la salute mentale. Per questo, credo, c’è grande urgenza di una iniziativa legislativa per restituire il governo del Servizio sanitario nazionale ai Comuni, anche sotto forma di Aziende di servizi comunali, combattendo le ipotesi del “regionalismo differenziato”.
Concludo la risposta all’interrogativo Ritorno a Basaglia? per sottolineare che il Servizio sanitario nazionale (ossia le Regioni) è diventato il titolare del lavoro per la salute nelle carceri[3], ad oggi certamente il luogo di maggiore sofferenza, anche mentale, e di massima miseria di risorse.
Osservo che il carcere, in particolare, ma anche le comunità locali, hanno da tempo in comune il compito di gestire la sofferenza mentale delle persone immigrate e migranti, che non si riconoscono nelle declinazioni “scientifiche” “atlantiche” “bianche” delle idee e dei trattamenti intorno alla salute e alla malattia: una sfida grande alle culture che hanno alimentato il movimento antiistituzionale psichiatrico italiano e innervato la riforma. Per queste ragioni ritengo sia ora che si proceda ad integrare i paradigmi bio-psico-sociali di riferimento per il lavoro nei Dsm con quelli dell’antropologia medica e culturale.
La rivisitazione/revisione del Servizio sanitario nazionale nelle direzioni indicate consentirebbe, è mia opinione, di procedere ad una co-costruzione dei servizi a partire da chi li vive in modo diretto: la comunità di operatori, la comunità territoriale, gli utenti e le loro relazioni famigliari, affettive e sociali; a ripensare e rifondare i servizi su base antropologica, ri-pensando a luoghi della cura in cui diffondere i sintomi della salute, al di là dell’aggiustare i sintomi della malattia: il tutto in una continua ricombinazione tra ciò che è locale e ciò che è globale. I luoghi e le comunità territoriali che curano e i percorsi terapeutici (fisico, psichico, spirituale che sia) sensibile ai diversi valori e significati culturali di “persona malata” spingono ad allargare la riflessione anche intorno al ruolo delle comunità religiose degli immigrati e dei migranti nei processi di cura.
[1] Per parlare dello stato delle relazioni fra movimento per la salute mentale e SIP nel nostro tempo, ricordo che l’ultima Conferenza nazionale per la salute mentale, è stata disertata per protesta dalla SIP il cui presidente Masssimo di Giannantonio dichiarò: “Non condivido il metodo autoreferenziale di scelta degli argomenti che sono stati “trapiantati” dal Tavolo tecnico nel programma senza confronto né discussione”.
[2]A Roma, le parole d’ordine anti-istituzionali furono usate da amministratori regionali per ridurre fin oltre al minimo la dotazione di posti letto in SPDC in una città in cui transitano, vivono, lavorano, ogni giorno, centinaia di migliaia di persone, pellegrini compresi. Questo per favorire e continuare ad alimentare l’occupazione di posti letto della enorme rete di cliniche private, i cui proprietari portano voti e consensi.
[3] v. DPCM 1 aprile 2008, Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie in materia di sanità penitenziaria.
*Luigi Benevelli, recensione del libro di Paolo Francesco Peloso, Ritorno a Basaglia? La deistituzionalizzazione nella psichiatria di ogni giorno, Erga edizioni, Genova, 2022.