La pena e la cura. Servizi di salute mentale in Italia dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. di Roberto Mezzina

Una “rivoluzione gentile”: la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari

Sin dall’inizio del processo di deistituzionalizzazione, a livello internazionale, si è determinato uno spostamento delle istanze di controllo e di contenimento dei comportamenti connessi alla sofferenza psicopatologica, in particolare se accompagnati da disturbo sociale e fino alla commissione di reati penalmente rilevanti, in altre configurazioni istituzionali, dai vecchi manicomi giudiziari fino a servizi ‘forensi’, operanti sia dentro che fuori il carcere.

In questo campo si fronteggiano e si confrontano saperi e ambiti normativi attestati su sponde diverse, ma che sempre hanno contribuito, spartendosi poteri e competenze, alla costituzione e alla normativizzazione del campo ‘ibrido’ della devianza (Castel, 1979; 2016). La giustizia e, in epoca storica assai più  recente, la psichiatria, restano discipline adiacenti, che hanno avuto a che fare con la definizione di norma e con la gestione dell’abnorme, sia pure da prospettive e con finalità affatto diverse.

E’ noto che in Italia la legge di riforma psichiatrica n. 180, detta legge Basaglia”, poi confluita nella n. 833 di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale alla fine  dello stesso anno (1978), mentre aboliva il ricovero coatto fondato sulla “pericolosità e sé e agli altri” e vincolava i trattamenti sanitari obbligatori a provvedimenti temporanei destinati a tutelare la salute, si doveva fermare di fronte al problema degli ospedali psichiatrici giudiziari, in quanto misure di sicurezza ‘detentive’ previste dal codice penale per soggetti con disturbi psichiatrici autori di reato (Mezzina, 2018).

Istituiti come soluzione organizzativa a partire da richieste di collocamento fuori dal carcere di detenuti che manifestavano e creavano disturbo (quello di Aversa fu il primo nel 1876), in un’ epoca precedente la legge del 1904 che istituiva ufficialmente i manicomi civili, essi vennero utilizzati col nuovo Codice Penale di epoca fascista (c.d. Codice Rocco, del 1930), in relazione alla ‘non imputabilità’ per ‘infermità mentale’ (totale o parziale) in una persona che commetteva un reato. (Canosa, 1979).  Se esso si abbinava ad un giudizio di pericolosità sociale, formulato sulla base di una perizia psichiatrica, il “folle reo” veniva escluso, “prosciolto” dal processo penale e sottoposto ad una “misura di sicurezza” appunto in un ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) o in una “casa di cura e custodia”. Tale misura, della durata di due, cinque o dieci anni, era peraltro prorogabile. Si trattava del cosiddetto “doppio binario”, che sanciva lo “statuto speciale” in sede penale del paziente psichiatrico fino a creare “ergastoli bianchi” in una istituzione ibrida, più simile ad un carcere che ad un ospedale psichiatrico.

Le prime e precoci critiche alla legge di riforma psichiatrica del 1978 rilevavano che nei primi anni vi era stato un aumento del 15% circa del n° internati nei 6 Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) italiani, ma successivamente questo dato rimaneva stabile.

Sia pure nell’arco di un ventennio e con alterne vicende, la  legge 180, che sul piano del diritto sanciva l’abolizione dello ‘statuto speciale’ della persona con disturbo mentale e la riportava ad una condizione di piena cittadinanza, si realizzava con la chiusura di tutti i manicomi civili (1999).

Tuttavia, nonostante le critiche rivolte da un lato all’incongruenza con l’evoluzione del diritto sancita dalla legge 180, e dall’altro all’istituzione in sé, segnata da arretratezza e violazione dei diritti costituzionali, i ‘manicomi criminali’ persistevano.  Successive sentenze della Corte Costituzionale (1982, 2003, 2004) sancivano però che la persistenza di un disturbo e la pericolosità dovevano essere valutati al momento dell’applicazione della misura di sicurezza, col conseguente invio della persona in OPG, e infine ne dichiaravano l’incostituzionalità, mentre altri provvedimenti (circolari ministeriali) limitavano l’invio in osservazione dal carcere o per perizia psichiatrica.  Scandali terribili, tra cui le morti di persone contenute (1974), e la visita del Comitato per la Prevenzione della Tortura, col rapporto al Consiglio d’Europa che stigmatizzava l’Italia, hanno costellato questo lungo periodo (CPT, 2008).

Con il decreto (DPCM) del 2008, che sanciva l’introduzione di un servizio di sanità penitenziaria gestito dal Servizio Sanitario Nazionale, si iniziava finalmente un processo di regionalizzazione degli stessi OPG, partendo da circa 1400 presenze.

Tuttavia lo scandalo persisteva. Uno dei risultati più tangibili della Commissione sullo Stato del Servizio Sanitario Nazionale (2010) fu la denuncia, documentata visivamente da un film realizzato ad hoc, dello stato miserevole e deplorevole in cui si trovavano gli OPG italiani, e che provocò un appello del Presidente della Repubblica per una rapida e definitiva soluzione del problema. Si creò un coordinamento nazionale di associazioni della società civile, denominato StopOPG, che ha sostenuto e tuttora sostiene il processo di superamento di queste arcaiche e ibride istituzioni totali.

Le disposizioni legislative ed i provvedimenti correlati al superamento degli OPG, che si sono succeduti a partire dall’ottobre 2011 (decreto-legge 211/2011, convertito nella Legge 9/2012) fino al febbraio 2016, e culminati nella legge 81 del 30/5/14 «Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari», hanno portato all’uscita definitiva di tutte le persone in essi internate nel maggio 2017 e alla loro chiusura.

Tale legge, incluso il percorso che l’ha preceduta, determinando il completamento del processo di deistituzionalizzazione psichiatrica iniziata in Italia negli anni ’70, sancita dalla legge di riforma, ha favorito quella che è stata comunque definita, nonostante contraddizioni evidenti e problematiche non ancora risolte (Barbui e Saraceno, 2015), una vera e propria “rivoluzione gentile” (Corleone, 2018), che ha profondamente trasformato il terreno difficile e incerto tra la cura e la sanzione. E’ stato fondamentale in questo senso il contributo del Commissario Parlamentare per il Superamento degli OPG, che ha realizzato puntuali relazioni semestrali e annuali fino al 2018 (Corleone, 2018), documentando e monitorando il processo e le nuove pratiche istituzionali.

Le nuove strutture

Gli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) sono stati chiusi grazie alla realizzazione di strutture residenziali finalizzate al loro superamento, realizzate da ciascuna regione in rapporto al ‘fabbisogno storico’ di posti in OPG. Si tratta di strutture con un massimo di 20 posti letto ad esclusiva finalità terapeutica, gestite da un’equipe multi-professionale. Il più delle volte sono pubbliche e gestite dai DSM responsabili del territorio dove sono collocate, con personale proprio e aggiuntivo; a volte sono gestite da privati convenzionati.

Gli aspetti di sicurezza e quindi anche l’obbligo di permanenza sono stati affidati alle autorità di pubblica sicurezza tramite ‘controllo perimetrale’, per lo più realizzato  da sistemi di telesorveglianza. L’aver escluso compiti di vigilanza e di controllo per il personale sanitario (salvo l’obbligo di segnalare allontanamenti) ha contribuito a parzialmente evitare l’ esercizio contemporaneo delle funzioni, in sè contraddittorie, di cura e di custodia, insite nella misura di sicurezza e già di fatto superate con la chiusura dei manicomi civili.

E’ stato innanzitutto confermato e sancito il principio della territorialità, che tuttavia ancora deve essere realizzato completamente nel nuovo sistema delle (così ribattezzate) ‘Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza’ (REMS), ancora in parte realizzate in sedi transitorie. Nel 2019 erano circa 50 le persone fuori dalla loro regione, tra le circa 600 ristrette nelle 26 REMS italiane.

Estremamente variabili sono le caratteristiche strutturali e organizzative adottate per le REMS, che restano residenze sanitarie a finalità terapeutica. Le dimensioni variano da 2 fino a 20 posti-letto (che è il limite massimo stabilito per legge), mentre va rilevata la grossa contraddizione di aver creato nell’ex-OPG lombardo di Castiglione delle Stiviere un insieme “polimodulare” per circa 200 posti, che pure è stato oggetto di rilievi critici da parte del CPT nel 2017.

Il punto centrale è che tale nuovo assetto istituzionale non ha peraltro modificato il quadro normativo di riferimento, confermando la vecchia impostazione del “doppio binario” sopra ricordata. Inoltre è ancora possibile per le REMS, come per i vecchi OPG, l’invio di persone in “misura di sicurezza provvisoria” anche in fase preliminare o di incidente probatorio e senza necessaria perizia psichiatrica (Pellegrini 2017).

Una delle sfide principali della legge di riforma è stata dimostrare che sarebbe stato possibile curare le persone con disturbo mentale senza utilizzare altre istituzioni totali, come l’OPG o il carcere, come scarico di fallimenti terapeutici e difficoltà di gestione, ma provando a restituire alle persone l’integrità della loro esperienza, la continuità della loro esistenza, mantenendo loro il supporto e la cura necessarie.

Questa catena, altrove spezzata e sconnessa, di interventi, di servizi, di scelte e di strategie, oggi ha infine compreso il delicato tema delle REMS, e va a nostro avviso concepita e assunta come un tutto, come un circuito le cui parti interagiscono (Steadman and Monahan, 1982; De Leonardis, Mauri e Rotelli, 1986), e quindi come un ambito integrale di azione anti-istituzionale di rinnovata cogenza.

Tra affermazione dei diritti e contraddizioni della nuova legge: la persistenza dello ‘statuto speciale’ del malato autore di reato

La nostra esperienza parte dal principio fondamentale che non vi debba essere un percorso, uno statuto, un istituto speciale per i rei che presentano disturbi psichiatrici, i quali devono essere considerati responsabili e, come tali, aver diritto al processo. In questa ottica i DSM devono essere rafforzati e responsabilizzati rispetto ai percorsi di cura anche nella pena, sia in condizioni di normale detenzione sia attraverso alternative (che comportino pure la modulazione della pena). La responsabilizzazione resta principio cardine, che coinvolge in prima istanza il soggetto giuridico, ovvero il reo, ma anche le agenzie sanitarie implicate nel percorso di cura, ossia i servizi.

In questo senso si registra una significativa convergenza con l’evoluzione del diritto internazionale. La Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità delle Nazioni Unite, all’art.12, sostiene come diritto inalienabile un uguale riconoscimento dinanzi alla legge, vincolato al riconoscimento della capacità legale. Vi si legge: “Gli Stati Parti riaffermano che le persone con disabilità hanno il diritto al riconoscimento in ogni luogo della loro personalità giuridica”. Ai sensi di tale Convenzione le persone con disturbo mentale hanno diritto a ricevere, anche in condizioni di detenzione, servizi adeguati.

Ciò rispecchia quanto peraltro previsto nel nostro paese dal DPCM 2008 sulla sanità penitenziaria, attraverso l’attività diretta delle equipe dei DSM presso gli istituti di prevenzione e pena. Questo principio, sostenuto da quarant’anni dall’esperienza di Trieste, è confortato dai recenti sviluppi dell’applicazione della stessa CRPD alla salute mentale e da quanto  è contenuto in un importante programma dell’OMS (WHO, 2017).

In particolare, il Committee on the Rights of Persons with Disabilities, nelle linee guida riguardanti l’ articolo 14 della Convenzione (Diritto alla libertà e alla sicurezza della persona) stabilisce in modo netto e radicale (cit, 2015) di non organizzare servizi speciali di tipo forense; di non attuare una diversione dalla giustizia (dalla pena) alla psichiatria (alla terapia), laddove, se il controllo sociale resta la guida e non il diritto alla salute, si impone ancora il vecchio binomio manicomiale cura-custodia. Conseguentemente, esso sancisce il diritto alla difesa e,  mentre esclude ogni forma di trattamento forzato, stabilisce che le forme di assunzione di decisioni non debbano sostituirsi al soggetto, ma solo essere di sostegno alla sua autodeterminazione.

Il Commento Generale sulla CRPD (CRPD, 2013) ha infatti definito la capacità mentale come le capacità decisionali di una persona, e ha rifiutato le concezioni mediche prevalenti della capacità mentale, affermando che esse sono “altamente controverse” e che la capacità mentale “non è, come è comunemente presentato, un fenomeno oggettivo, scientifico e che si presenta in natura”.

Il Comitato della CRPD ha sostenuto in tale occasione che la capacità mentale e la capacità giuridica non vadano confuse, e che le competenze compromesse nel processo decisionale della prima non dovrebbero essere una giustificazione per la sospensione della capacità giuridica, se consideriamo affermato il principio del consenso informato. Pertanto non è più accettabile l’esclusione dal processo penale sulla base di una disabilità mentale.

Di fatto, anche al di fuori del quadro del diritto internazionale, nessun solido supporto disciplinare viene ancora dato al concetto (presente nel Codice Penale italiano) di “incapacità di intendere” (il significato dei fatti di cui si fa esperienza), e “di volere” (riferita alle azioni). Ciò né da parte delle ‘soft sciences’, quali le scienze cognitive, la neuropsicologia, la psicoanalisi (Colucci, 2016), che escludono un meccanicismo deterministico di causalità e prevedibilità dei comportamenti; né  dalla stessa filosofia, specie se si guardano i concetti di intenzionalità e di senso, in  Husserl (10), Ricouer (11), Apel e soprattutto Habermas (12).

Affermare l’imputabilità del malato di mente non vuol dire peraltro negare la malattia e i suoi effetti, ma significa invece proporre la ricerca del senso del gesto-reato all’interno della storia di quel soggetto, e della continuità della sua esistenza, senza negarlo ed invalidarlo attraverso presunti automatismi naturalistici attributi alla malattia da un pensiero determinista-positivista.

Per quanto concerne la pericolosità, per le persone con disturbi psichiatrici, essa è stata correttamente riferita ad elementi di contesto, specie di natura relazionale, che si esplicano soprattutto all’interno delle relazioni familiari e comunque significative (Dell’Acqua, Cogliati e Mezzina, 1988). Invece nel concetto di pericolosità “il patologismo deterministico di derivazione lombrosiana” viene riconfermato, anche se risulta “impossibile dare un contenuto scientifico al risposta al quesito circa la pericolosità sociale psichiatrica…la pericolosità sociale consiste nella sua essenza in un giudizio individualizzato di prognosi comportamentale, con il quale si ritiene concretamente prevedibile la reiterazione di atti delittuosi” (Fornari, 1989).

Da qui il nuovo impulso ad affrontare e a smontare – nella pratica – la questione, che la nuova legge non ha risolto a livello normativo, della pericolosità.

Studi di ambito epidemiologico sull’associazione tra violenza e commissione di reati associate a diagnosi psichiatriche sembrano segnare alterne fortune – vedi da un lato Elbogen et al. (2009); dall’altro Whiting et al. (2021).  A parte i rilievi metodologici, una relazione statisticamente significativa tra un descrittore (la diagnosi) e la probabilità di commettere reati (la pericolosità) non può essere riproposta con un nesso di causalità lineare. La multifattorialità induce a considerare il peso dei determinanti sociali sia sulla salute che sulla devianza sociale. Essi agiscono ‘a cluster’, com’è noto dagli studi di ‘intersezionalità’ tra variabili che configurano sinergie potenti.

Pericolosità e rischio: una falsa antinomia

Il vecchio binomio infermità mentale–pericolosità è ancora alla base della legislazione penale, che escludendo la capacità, consegna il malato allo stigma della pericolosità. Oggi esso sembra aggiornarsi nel concetto di rischio.

Le due denominazioni ci portano in due direzioni differenti, ma non in modo sostanziale. La prima attribuisce la pericolosità alla malattia e alla persona che la manifesta, come un attributo del soggetto. Essa riporta indietro alla legge 1904 che fondava il ricovero coatto nei manicomi italiani sulla pericolosità. Ovviamente, essa si colloca in contrapposizione frontale  con la CRPD dove ‘nessuna discriminazione deve essere attuata sulla base della condizione o della disabilità in sé’. Le conseguenze operative saranno ancora istituzioni chiuse, finalizzate al contenimento dl soggetto pericoloso. Inoltre, essa va ad oscurare i fattori di rischio contestuali e situazionali che invece vanno considerati per realizzare una presa in carico globale.

Una lettura radicale dell’aggressività, come quella sostenuta da Franco Basaglia (1964), la interpreta come meccanismo di difesa dall’istituzione, di ribellione ad essa e di paradossale autoaffermazione del soggetto, ‘primo gesto di ribellione del malato internato all’oppressione’ (Basaglia, 1964). Essa ci dovrebbe indurre a non riproporre e riprodurre quella violenza e quella oppressione, ma a spezzarne la catena.

La seconda direzione, quella del rischio, può pure portare in un altro vicolo cieco, rappresentato dall’ossessione ‘moderna’ per la ‘risk aversion’, la strategia di contenimento dei rischi che si traduce in scelte istituzionali di contenimento e di confino (Sashidharan, Mezzina, 2018).

Il rischio è purtuttavia evitabile, se trattato; ma come?

Da un lato, sulla base dell’ipotesi di una condizione graduata di ‘rischio’, ci si può e ci si deve occupare dell’interazione tra soggetti autori di reato e le loro storie, segnate a loro volta da violenza familiare o abbandoni, con gravi lacerazioni del Sé, e laddove i determinanti sociali sono rilevanti e sovrapposti per la commissione dell’atto criminale e la violenza: problemi relativi a casa, lavoro, ambiente sociale, legami sociali e quant’altro.

Dall’altro, il discorso può (e deve, a nostro avviso)  essere ribaltato in una assunzione positiva del rischio sul versante del servizio, se esso opera in una logica trasformativa di presa in carico.

Come si cala tutto questo nella questione dell’alternativa, ieri agli OPG, oggi alle REMS? Come già riferito, “de facto”, con la legge 81, l’esecuzione della misure di sicurezza “detentive” negli ospedali psichiatrici giudiziari è sostituita dall’invio in REMS. In questo senso, la più grande contraddizione è stata la persistenza del regolamento penitenziario in una struttura che per legge è ad esclusiva gestione interna sanitaria (col solo “controllo perimetrale” da parte delle autorità di pubblica sicurezza). Ciò ancora si trova in numerose REMS italiane, nonostante l’Accordo della Conferenza Stato Regioni e le successive prese di posizione dello stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) a questo proposito (Pellegrini, cit).

Peraltro la dichiarata “pericolosità”, specie se legata ad una patologia cronica, o ad un disturbo di personalità, viene inserita in un circolo vizioso laddove il soggetto viene ristretto da una misura di sicurezza “detentiva”, invece di optare per una verifica nelle condizioni di realtà dell’esperienza.

Quando viene invece riscontrata una “pericolosità sociale attenuata” (nuova categoria priva di fondamento, come la semi-infermità, potremmo così parlare di semi-pericolosità), come prodotto del lavoro terapeutico  e riabilitativo, può invece essere  proposto dal CTU al magistrato il passaggio da una misura di sicurezza detentiva ad una non detentiva.

Va qui invece assunto in pieno il principio, più volte richiamato dalla Corte Costituzionale, per cui la misura di sicurezza di carattere detentivo deve essere considerata alla stregua di una soluzione residuale, estrema, da comminare soltanto nei casi in cui nessun’altra forma di trattamento possa ritenersi adeguata. Essa va inoltre sottoposta a verifiche costanti per evitare gli abusi del passato (qui, per fortuna, la nuova legge stabilisce che tale misura non può oltrepassare la durata della pena prevista per il reato). La stessa REMS è in sé una soluzione che dovrebbe essere inteso come residuale e ad esaurimento. Vediamo allora in che cosa consistono le pratiche alternative.

La presa in carico

Nel circuito che alla fine può portare alle REMS, piuttosto che in carcere, persone con disturbo mentale autrici di reato, il ruolo dei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) nella riforma introdotta dalla legge 81 risulta assolutamente centrale e strategico. In passato, il DSM non interveniva su quanto deciso dal magistrato a meno che non espressamente richiesto di delineare un programma, anche a seguito di specifico quesito posto al CTU. Nella nuova normativa, il DSM è fondamentale nel valutare e proporre alternative di presa in carico, attraverso protocolli specifici con la magistratura, in ogni grado di indagine e giudizio (come in Regione FVG), e nel sostenere il piano di trattamento in REMS e pure il Progetto terapeutico-riabilitativo individuale (PTRI) proposto per un’alternativa alla REMS.

L’accordo della Conferenza Stato-Regioni col DAP del 26 febbraio 2015 già ha previsto che venga formulato subito, entro 45 giorni dall’ingresso in REMS, tale PTRI finalizzato all’adozione di soluzioni diverse dalla REMS.

Quanto fin qui esposto ha trovato conforto nel parere del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB, 2017), che ha sottolineato i principi di residualità della misura di sicurezza, di territorialità nella sua esecuzione, di individualità del progetto terapeutico, e soprattutto il principio del primato della salute del paziente sulle esigenze di controllo sociale.

L’aspetto qualificante e centrale è rappresentato dalla pratica, con cui i DSM svolgono questo ruolo nella dinamica della riforma. Se i servizi territoriali di salute mentale intendono la loro operatività in chiave ambulatoriale, con ricorsi routinari al ricovero ospedaliero, con un uso automatico e “amministrativo” del trattamento sanitario obbligatorio, e sono attenti a mantenere tecniche e vocazioni terapeutiche senza considerare la domanda di controllo sociale e gli aspetti di sanzione penale, il rischio dell’abbandono o, inversamente, dell’induzione di istanze fortemente repressive e di contenimento diventa la norma. Diversamente, qualora si sia organizzata una rete organica di servizi capace di accogliere complessivamente il disagio, disposta  ad assumersi il carico dei bisogni che lo accompagnano, di essere attraversabile e flessibile alla soggettività ed all’unicità del cittadino portatore di tale disagio, si creano condizioni che permettono di affrontare in maniera articolata la complessità del percorso di cura, nell’intersezione con i circuiti della sanzione.

La nostra esperienza (e qui mi riferisco a quella, ormai cinquantennale, nel Dipartimento di Salute Mentale di Trieste) è basata sui principi della  responsabilità sulla salute mentale dell’area territoriale, con la presenza attiva del Servizio e mobilità verso la domanda, l’accessibilità (e modello di riconoscimento non solo clinico); della continuità terapeutica, inclusa la risposta alla crisi garantita dal e nel servizio territoriale; della  globalità e integrazione degli interventi, del lavoro di una equipe multidisciplinare.

L’orizzonte è quello di un approccio di sistema, complessivo, alla vita intera della persona. Qui di seguito indichiamo i principali passaggi che nella nostra esperienza si sono rivelati fondamentali per la presa in carico delle persone con disturbo mentale a rischio di commissione di reati e di problemi con la giustizia. La prevenzione secondaria si realizza attraverso la pratica proattiva ed assertiva dei sottogruppi di continuità terapeutica, operanti nei vari Centri di salute Mentale (CSM) – aperti sulle 24 ore, ciascuno con alcuni posti letto – finalizzati alle persone ad alta priorità sulla base di criteri (costante aggiornamento elenco e modulazione dell’intensità – circa 1/10 utenza del CSM) (Mezzina, 2014; 2016; 2017). La presa in carico globale dei bisogni personali e sociali (“whole life”) si pone in una prospettiva di abilitazione e recovery, articolandosi in progetti personalizzati (PTRI), eventualmente con Budget di Salute, imperniati sugli assi casa-lavoro-socialità.

Gli interventi di crisi dei CSM, anche a domicilio, sono volti a prevenire il trattamento sanitario obbligatorio (TSO), attraverso l’ingaggio attivo della persona, la negoziazione assertiva, a volte anche in collaborazione con le forze dell’ordine. Lo stesso TSO è in questo quadro va visto non come un accadimento esterno al servizio, ma un’assunzione di responsabilità del servizio stesso in caso di fallimento del programma e di rischio per la salute del soggetto.

In questa stessa direzione si muovono pratiche in altre parti d’Italia, che hanno portato al contenimento nell’uso del TSO. Il tasso dei TSO in Italia continua a calare, fino a meno di 15 per 100.000 abitanti (Ministero della Salute, 2018).

L’affiancamento nei percorsi giudiziari, la perizia psichiatrica e l’intervento in carcere

In ogni sistema ‘post-manicomiale’, o comunque a vocazione anti-istituzionale, riteniamo essenziale l’attraversamento del nodo della sanzione nella pratica di salute mentale territoriale. Qualora si inizi un percorso giudiziario che riguarda una persona nota al servizio, o comunque portatrice di disturbo mentale, dall’interrogatorio alla relazione di supporto alla difesa legale, deve essere immediata la presenza e l’offerta di un servizio che opera nella comunità nei confronti di polizia e magistratura. Nei vari passaggi dell’accompagnamento, del sostegno, dell’informazione, della comunicazione, l’interazione con gli apparati dell’ordine pubblico e della giustizia è finalizzata a far comprendere il percorso, la storia della persona fino al gesto di rottura, al potenziale reato, onde permettere di riportare a ragioni “umane” il comportamento sintomatico o deviante (Mezzina, 1987). Essa inoltre tende ad offrire garanzie a chi opera sul versante della sicurezza e alla magistratura inquirente, giudicante e di sorveglianza, attraverso la formulazione di un progetto, di un percorso di cura e di re-inclusione sociale.

Per quanto concerne la pratica della perizia psichiatrica, riteniamo che essa sia necessaria, attraversando criticamente la contraddizione del ruolo peritale come compito del servizio. Tale pratica vede l’atto peritale come una necessaria ricostruzione di storia, soggettività e continuità di senso (“l’ininterrotto rapporto di senso” di cui ha scritto Klaus Doerner, 1975) La perizia dunque indaga su alcune domande chiave, che attengono alla relazione tra la soggettività e il disturbo, la malattia: come questo viene direzionato e gestito dal soggetto (Dell’Acqua e Mezzina, 1988; Strauss, 1992), che senso ha il sintomo per il soggetto, che senso ha l’esperienza stessa di malattia in quanto fatto anche interpersonale e sociale.

La questione centrale del determinismo biomedico è che esso non rende ragione del senso (Augé e Herzlich, 1986), che invece può essere un tramite per riconoscere un livello di capacità giuridica rispetto al reato. Com’è noto negli studi sulla “recovery”, trovare un senso allo star male è essenziale alla riappropriazione di sé, e dunque esso sarà centrale anche nella riabilitazione connessa alla pena, alla sanzione (Marin e Mezzina, 2006). La questione principale diventa allora comprendere come un gesto-reato si inquadra in una storia, che significato particolare può rivestire, e come da esso ripartire. Anche dal carcere.

Col decreto del 2008, e nei successivi Accordi della conferenza Stato-Regioni, emerge la chiara indicazione che “gli interventi diagnostici e terapeutico riabilitativi sono assicurati dai dipartimenti di salute mentale delle Aziende sanitarie territorialmente competenti, oltre che dagli specialisti del Servizio” (Accordo n. 3/CU del 22/01/2015).

Generalmente si auspica che ciò avvenga attraverso la realizzazione di c.d. “Articolazioni Psichiatriche”, ossia sezioni specializzate, gestite con criteri sanitari, all’interno delle carceri, esperienza tuttavia ancora da sottoporre a verifica rigorosa sia dal punto di vista dell’efficacia che dei diritti umani. Ciò è riportato ripetutamente nelle relazioni del Garante per i Diritti delle Persone private della libertà. Recenti denunce sono avvenute sullo stato, non dissimile dal vecchio OPG, di alcune delle sezioni speciali psichiatriche nelle carceri (come a Torino, nel gennaio 2022).

A fronte di ciò, è da sottolineare la scelta condivisa in misura minoritaria da alcuni DSM italiani, di garantire l’entrata dei servizi di salute mentale in carcere (nel ritenere che il carcere è parte del territorio) allo scopo di mantenere la continuità di cura e di relazione, e inoltre per affrontare le nuove domande in un luogo ad alta concentrazione di sofferenza, mettendole immediatamente in contatto con le risorse e i programmi disponibili soprattutto “nel fuori”.

A Trieste dal 1980 il DSM ha scelto di intervenire in carcere, dapprima con un numero ristretto di operatori, poi attraverso una convenzione che coinvolgeva direttamente tutti i CSM attraverso operatori allo scopo autorizzati, capaci anche di supportare in modo intensivo le situazioni critiche, e comunque di garantire la dovuta continuità dei programmi terapeutici, riabilitativi e di reinserimento sociale. Questo sia a vantaggio di coloro che sono già noti al servizio, che di altri che manifestano il loro star male, o si ammalano, all’interno del carcere (Oretti e Castelpietra, 2012).

Al di là della risposta basata sul colloquio e sul farmaco, l’intenzione è stata sempre quella di costruire un progetto individuale di recovery, che si proietti all’esterno, fuori dall’orizzonte ristretto della detenzione, per garantire un futuro possibile al soggetto. Circa 45 persone all’anno, di cui una ventina già note, vengono attualmente seguite o quantomeno valutate quando presentino sospetti disturbi psichici e/o comportamentali di dubbia natura.

La pratica dei CSM nel carcere (coordinata a livello dipartimentale in un “gruppo carcere”) ha permesso di azzerare ben presto gli invii in OPG dal carcere (dato che è stato sempre assunto come importante successo anche dalla stessa direzione del carcere). Il servizio si è poi integrato con il servizio sanitario generale gestito dall’azienda sanitaria, che include anche il Dipartimento per le Dipendenze.

E’ possibile anche mettere in campo alternative di cura offerte dai servizi del DSM. Si può  concordare col magistrato il ricovero nel Servizio di Diagnosi e Cura (nell’ospedale generale) di persone in condizioni acute di scompenso (anche per TSO), o più lunghe permanenze nel CSM 24 ore, ad esempio in attesa o in corso di perizia, con finalità più prettamente riabilitative, proponendo detenzione o arresti domiciliari presso il CSM stesso. Alternative al percorso psichiatrico-forense sono state più facilmente attuate proprio nel corso di periodi lunghi di ospitalità nel CSM, qualora non utili o non disponibili altre soluzioni. Ciò corrisponde a “porre la persona al centro dell’attenzione del servizio”, ripartendo con programmi abilitativi sia residenziali che nelle diverse aree ed ambiti garantiti oggi dal Centro Diurno “diffuso”, per un complessivo progetto di vita.

I PTRI sostenuti da Budget di salute, con specifico uso di fondi quali il FAP (Fondo per l’autonomia possibile), in co-progettazione con i servizi sociali degli enti locali, sono strumenti utili in tal senso, anche al fine di evitare percorsi di deriva sociale ed istituzionalizzazione. Ne è elemento chiave il coinvolgimento delle cooperative sociali e della comunità locale per la realizzazione dei progetti terapeutico-riabilitativi individuali: in funzione di supporto quotidiano, accompagnamento, gestione di programmi di inserimento socio-lavorativo e di abitare assistito (Mezzina e Ridente, 2015; Ridente e Mezzina, 2016).

Va rimarcata l’importanza di questo strumento anche in altre situazioni in cui esso è utilizzato, fino alla costituzione di ONLUS tra ex-internati in OPG in una logica di impresa sociale attraverso la forma cooperativa (Righetti, 2013).

Ribaltare la logica dell’esclusione nelle REMS

Anche in tema di REMS, i sistemi virtuosi, che contano migliori servizi e consolidati rapporti di collaborazione con la magistratura, hanno potuto sviluppare modelli ed esperienze certamente innovativi. La Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, all’inizio del percorso di superamento degli OPG, aveva previsto il dimezzamento del modello organizzativo dell’unica REMS regionale allora prevista da 20 a 10 posti letto, secondo il fabbisogno “storico” rispetto all’OPG (per Trieste pari a zero dal 2006). Successivamente, vi è stato lo “spacchettamento” del modello di 10 posti in tre sub-unità territoriali (attualmente, come REMS provvisorie, tutte tre di 2 posti ciascuno). La REMS “diffusa” regionale che ne risulta è quindi collocata nei servizi di tre DSM (nel caso di Aurisina, a Trieste, all’interno di una sede di Centro Diurno) ed opera a rete ed in rete con tutti i servizi regionali coinvolti, con ciò evitando la costituzione di un luogo o servizio dedicato, dunque “speciale”, la creazione di una struttura carceraria, di detenzione, operando invece di fatto a porta aperta.

L’affermazione nella pratica della responsabilità territoriale dei servizi prima descritta, nel rispondere alle necessità di una presa in carico che garantisca i percorsi delle persone, si attiva per evitare un “altrove” dove accada di recludere, escludere, relegare, segregare, delegare, detenere le persone. La responsabilità è condivisa tra la REMS e il CSM di riferimento. Il principio della piccola scala ha permesso di inserire “una persona alla volta”, ed uno “stare con” essa, permettendo la ricostruzione della storia e della rete sociale insieme, tenuto conto che la storia si attualizza in una rete di relazioni.

L’entrata della comunità nella REMS si è realizzata con attività culturali, mercato, concerti, presenza di scolaresche. Strumenti utili in senso evolutivo sono stati i permessi per l’inserimento lavorativo e per la partecipazione alle attività del CSM di provenienza.

Il confronto con gli aspetti di sanzione da assumere direttamente con la REMS è stato un lavoro difficile e duro per servizi che operano a porta aperta e senza contenzione (Mezzina, 2017, 2019). La sanzione costituita dall’internamento, che si fonda sul principio dell’esclusione, è stata in un certo senso rovesciata nel suo opposto: nell’inclusione in una relazione stretta, nell’umanità di questa relazione, nell’accogliere l’ospite, lo straniero. È stata realizzata la continua decostruzione e ricostruzione, nella pratica, del modello REMS in quanto potenziale nuovo mini-OPG. Se ciò da un lato ha significato la deistituzionalizzazione della struttura per come essa è concepita, nei suoi aspetti reclusivi, dall’altro ha permesso la costruzione di una piccola ‘istituzione inventata’, per dirla con Franco Rotelli (2015), con lo scopo di smentire, di superare sé stessa per trovare al più presto nuove soluzioni più utili alle persone.

Questo è possibile solo nel quadro di servizi forti e capaci di presa in carico, e orientati a chiari principi. Si lavora dunque per prevenire anche l’invio in REMS, offrendo alla magistratura opportunità e alternative, tra cui la più semplice, e spesso la più efficace, è lo stesso CSM di riferimento.

Le situazione attuale delle REMS

Le modalità attraverso cui si sono realizzate le REMS risentono profondamente di impostazioni culturali e di politiche regionali assai divergenti, per le quali è stato necessario trovare un punto di sintesi nella Conferenza Stato-Regioni. Oltre al caso della Lombardia, già citato, alcune regioni hanno scelto la soluzione di avere più di un modulo, o inversamente di non avere proprie REMS ma di ‘appoggiarsi’ ad altre regioni (così Piemonte, Umbria); altre regioni hanno perfino proposto inizialmente strutture carcerarie in disuso, o hanno incaricato soggetti privati. In molte la strutture di ‘controllo perimetrale’ (muri, reti, videocamere di sorveglianza) sono state accompagnate dalla persistenza di modelli custodiali, con metal detector, porte chiuse anche all’interno, letti ancorati al suolo, e un (benché limitato) uso di contenzione; altre si sono dotate di vigilantes interni in funzione deterrente e preventiva di potenziali episodi di violenza (Corleone, 2018).

La critica pratica al regolamento penitenziario è stata attuata non dappertutto e ha risentito degli equilibri in essere con Magistratura e Prefetture, o perfino dei rapporti coi comandanti di Carabinieri e Polizia di Stato.

Le REMS hanno nel complesso raccolto la sfida di contribuire a realizzare nella pratica l’alternativa alle vecchie istituzioni. Esse si sono costituite in un coordinamento nazionale capace di interloquire con il Ministero e le Regioni (Corleone, cit.), che ha affiancato il lavoro di StopOPG. In molte di esse si è affermato un modello di comunità terapeutica, in genere con buoni risultati, ma il nodo cruciale è stato il  rapporto col territorio, in particolare coi DSM, la possibilità di essere ‘transitorie’ e garantire una reintegrazione sociale attraverso ulteriori passaggi terapeutici e soluzioni abitative protette o supportate. Tra i dati principali, l’indice di turnover elevato, a paragone dei vecchi OPG.

Nel dicembre 2021 è finalmente ripartito un organismo ministeriale di coordinamento sul processo di superamento degli OPG. Va segnalato che i DSM si sono nel frattempo impegnati, specie in alcune realtà, a garantire la realizzazione di progetti alternativi alle REMS nell’interlocuzione con la Magistratura. Nonostante non vi siano dati ufficiali, si stima che vi siano circa 6.000 persone con disturbi mentali e provvedimenti giudiziari seguiti sul territorio dai Dipartimenti di Salute Mentale. Il 70% di questi pazienti è ospite di strutture residenziali, occupando circa il 15% dei posti disponibili e comportando una spesa annua intorno ai 300 milioni di euro. Tra gli esiti da segnalare, il limitato tasso (inferiore al 5%) di recidiva nei reati. Gli attuali posti REMS, pur con un buon turnover, mostrano una tendenza all’allungamento della degenza per un effetto accumulo dei pazienti con reati gravi e durata delle misure  prolungato (5-10 anni) che ovviamente non devono essere trascorsi in REMS.

La cosiddetta ‘lista d’attesa’, la cui entità è difficile da quantificare non avendo alcun sistema nazionale attendibile (al 21 luglio 2021 sarebbero 750 per il DAP, 568 per la Conferenza Stato-Regioni), ma la maggioranza, come già notato, rientra nella discutibile prassi della misura di sicurezza provvisoria che esclude il precoce coinvolgimento dei DSM nella presa in carico. I soggetti in attesa di entrare in REMS dal carcere sono calati in un anno (da ottobre 2020 a ottobre 2021) da 98 a 35.

Da qui la richiesta costante di aumento dei posti letto da parte della magistratura e di superamento del numero chiuso, voluto a suo tempo a garanzia di una non ulteriore e indefinita espansione del contenitore psichiatrico forense, per i noti e già citati rischi ad essa connessi. E’ operativo un sistema di monitoraggio per il percorso di superamento degli OPG e della sanità penitenziaria (SMOP) adottato da 19 delle 20 Regioni.

Ulteriori dati sono stati recentemente forniti, in una relazione alla Corte Costituzionale, dai Ministeri della Salute e della Giustizia e dalle Regioni. Al 31 luglio 2021, risultavano 36 REMS, per un totale di 652 posti-letto; con le REMS definitive il sistema ne dovrebbe comprendere 740. Solo 19 persone sulle 596 presenti erano fuori regione; vi erano inoltre 15 senza fissa dimora e 58 stranieri.

Tra rischi di regressione e prospettive di avanzamento della riforma

Nel valutare gli esiti attuali della riforma, si può affermare che l’obiettivo del legislatore di superare definitivamente la logica manicomiale, fondata sull’internamento, che ancora sottendevano gli OPG, non è ancora stato pienamente e definitivamente raggiunto. Mentre la chiusura degli OPG, a lungo rinviata, è stata alla fine coronata da un importante successo, il nuovo sistema provvisorio delle REMS, con tutte le sue irrisolte contraddizioni, si innesta su un declino del sistema italiano di salute mentale, che ha le sue cause strutturali nel calo in termini di investimenti e nella persistere carenza di equità tra regioni.

Tra i problemi finora irrisolti, per prima si pone la persistenza nelle leggi del sistema del ‘doppio binario’ per i rei giudicati non imputabili, per incapacità e pericolosità, e quindi sottoposti a misura di sicurezza.

Ciò comporta contrastare l’uso (e l’abuso) di tali misure, come evidenziato da coloro che sono in “lista di attesa” per l’ingresso nelle REMS, quasi tutti con misura di sicurezza provvisoria. Essa viene spesso irrogata prima ancora che siano valutate alternative offerte dai servizi di salute mentale operanti sul territorio. Il loro potenziamento, previsto sin dal primo decreto-legge del 2011, non solo non si è avverato, ma si è assistito ad una ulteriore, notevole riduzione delle risorse.

Col recenti provvedimenti normativi si è inoltre presentato il rischio di un ritorno alla REMS, al pari dell’OPG, come contenitore indifferenziato di persone con disturbo mentale e aspetti di disturbo sociale, ad esempio i disturbi di personalità. Tra le varie minacce di regressione dell’attuale quadro legislativo, va considerata l’istruttoria aperta dalla Corte Costituzionale che ha posto la questione radicale dell’illegittimità della nuova legge (L. 81/2014), sulla base di un’istanza posta dal Tribunale di Tivoli.[1]

    La Corte Costituzionale (2022) ha rigettato l’istanza, anche considerando il rischio di grave destabilizzazione e vuoto normativo che avrebbe aperto la dichiarazione di incostituzionalità. La sentenza tuttavia esita in una esortazione a un provvedimento legislativo organico sulle nuove misure di sicurezza detentive realizzate dalle REMS, riposizionando come centrale il ruolo del DAP e della Magistratura.

Sta qui il rischio maggiore: che ciò che era transitorio, pensato per il superamento degli OPG (per cui non era neppure utilizzata le dizione REMS fino al 2014) diventi un sistema stabilizzato su numeri più alti di posti letto, automatismi maggiori e cogenti, insomma si istituzionalizzi un nuovo e problematico doppio binario, che legittima appieno pure le contestare misure di sicurezza provvisorie. Esse vengono disposte perché mancano spesso accordi inter-istituzionali, su base territoriale, per la valutazione e la presa in carico, tra la Magistratura e i DSM, mentre questi ultimi non sono né culturalmente né operativamente attrezzati in maniera adeguata.

Il cittadino con disturbo mentale viene di nuovo sottoposto ad un diverso diritto: discutendo della differenza col TSO, la Corte afferma che la finalità delle REMS non può essere esclusivamente terapeutica, ma anche custodiale.

Confermando il doppio binario sulla base della non imputabilità per incapacità, la pericolosità può tornare ad essere legittimata come questione della psichiatria, che deve ‘difendere la collettività’ a braccetto con la giustizia. Tra le molte contraddizioni non risolte dalla sentenza, vi è quella tra pena e cura, che le misure di sicurezza comunque ripropongono con ogni evidenza: inserire la pena nel contesto della cura, non  il contrario (Corleone, 2022).

Si pongono allora una serie di questioni di più ampia prospettiva: è possibile superare la disciplina delle misure di sicurezza? È attuabile una riforma del Codice Penale in merito a incapacità e pericolosità? Una nuova proposta di legge è stata infatti presentata e riformulata, riproponendo e modificando, in uno scenario certamente mutato in meglio, vecchie proposte degli anni ’80 (Magi et al, 2021). Essa intende abolire degli articoli 88 e 89 del CP (non imputabilità per infermità psichica) e intervenire sul piano della diversione dal contesto della pena a quello terapeutico sul territorio, prevedendo una – sia pur limitata – operatività delle articolazioni psichiatriche in carcere. Ciò peraltro potrebbe aprire altre contraddizioni, tra cui una nuova esclusione dal circuito normale della pena e la costruzione di contenitori ad hoc sia dentro che fuori il carcere, mentre le REMS di fatto sarebbero eclissate.

Conclusioni

In attesa del riordino legislativo, e soprattutto sperando in più coraggiosi e radicali provvedimenti legislativi, è possibile comunque concludere con alcune indicazioni per una buona pratica, che si muova criticamente nello spazio di relazione tra psichiatria e giustizia, nella contraddizione tra cura e sanzione penale.

  • Potenziare il lavoro dei servizi: non solo utilizzare residenze e comunità, ma mettere a disposizione risorse, attività, progetti utili alla presa in carico, il che implica affrontare e prendere in carico la crisi sul territorio a partire dai servizi territoriali, lavorando con le forze dell’ordine evitando deleghe, e facendone il motore del percorso di cura successivo. Ciò permette di ridurre l’enfasi sulla pericolosità, destigmatizzando attraverso pratiche concrete di ‘presa in carico’ l’immagine sociale della persona con disturbo.
  • Realizzare progetti personalizzati ad ampio respiro (“whole life”), coinvolgendo le risorse del territorio e il privato sociale – strumento suggerito ne è il Budget di Salute, ma anche le pratiche e le equipe di continuità delle cure territoriali (che utilizzano i principi organizzativi del case management, dell’ACT, del FACT etc).
  • Realizzare protocolli di collaborazione inter-istituzionale con magistratura – e la loro diffusione e applicazione, il cosiddetto “cruscotto” integrato con la sanità penitenziaria.
  • Offrire attivamente le risorse del sistema salute mentale inclusi CSM, SPDC, residenzialità e soluzioni abitative e riabilitative alla magistratura, e più in generale offrire competenze per programmi e perizie in una logica di “concertazione”.
  • Entrare nel carcere come pratica di routine degli operatori dei servizi, per garantire la continuità terapeutica, proponendo soluzioni in caso di “crisi dell’istituzione”, ora più frequenti data la “sanitarizzazione” del carcere.
  • Evitare la deriva verso le misure di sicurezza, intercettare il rischio di REMS, proporre alternative. Se c’è un invio in REMS, programmare la gestione e il percorso di cura congiuntamente col CSM di riferimento territoriale, e le risorse del territorio (le cooperative sociali, le associazioni), affinché si possano offrire altre soluzioni in breve tempo.

Tutto ciò, in definitiva, può consentire di riattraversare il campo della sanzione e trasformarlo, evitando al tempo stesso un’acritica psichiatrizzazione: la cura nella pena, e non viceversa.

Roberto Mezzina

NdR: L’articolo é stato chiuso dall’autore in aprile per una pubblicazione internazionale, pertanto non comprende l’analisi del dibattito suscitato dal caso Meran a Trieste in merito a perizia psichiatrica, incapacità, pericolosità e ruolo delle Rems.  

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[1] Si tratta di una persona che aveva colpito con un cartone di vino il sindaco di Tivoli, da cui si era recato per chiedere buoni-pasto. Sottoposta a perizia e giudicata incapace e pericolosa,  non aveva trovato immediata collocazione in REMS.

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