Gentile Direttore de La Stampa,
ho letto con interesse l’articolo di Vladimiro Zagrebelsky “Detenuti psichiatrici e salute da tutelare” pubblicato il 6 dicembre 2021. All’analisi dell’autorevolissimo autore con il quale concordo su diversi punti mi permetto di aggiungere alcuni dati.
Il primo è quello epidemiologico: nella popolazione generale la prevalenza annuale dei disturbi mentali è intorno al 20%, percentuale che sale ulteriormente se si considerano i casi “sottosoglia”. Quindi se la popolazione detenuta fosse sovrapponibile a quella libera, un detenuto su cinque soffre di un disturbo mentale. A questo dato va aggiunto che nella popolazione detenuta sono maggiormente rappresentate le persone con disturbi da uso di sostanze (oltre un terzo dei detenuti ha commesso reati legati alla droga), con disturbi della personalità, specie antisociale, disturbi di ansia, adattamento, somatoformi e depressivi. Inoltre la detenzione è un forte fattore di stress e in carcere si concentrano condizioni di rischio legate a marginalità, povertà, all’essere stranieri e migranti, alla distanza dalle famiglie, alla deprivazione di relazioni e di diritti alla affettività e sessualità.
Il carcere è quindi un ambiente potenzialmente patogeno nel suo complesso e pone a rischio la salute mentale di tutti. Servono azioni generali, di sistema per la salute mentale e il benessere relazionale, per prevenire e contrastare autolesionismo e suicidio visto che il tasso di suicidi in carcere tra i detenuti è 15 volte maggiore rispetto alla popolazione generale ed è più elevato anche nella polizia penitenziaria.
Forse una riflessione su questi elementi, dovrebbe essere preliminare al tema dell’assistenza psichiatrica.
Si dovrebbe prevenire, depenalizzare e/o legalizzare alcune droghe, attivare misure alternative, assai più efficaci della detenzione nella prevenzione delle recidive, assicurare relazioni e il diritto alla salute anche sessuale, alimentare la fiducia e la speranza. Si dovrebbe tenere le persone vicine alle famiglie, promuovere formazione, lavoro, socialità e attivare esperienze di giustizia riparativa.
Poi vi è la questione specifica della cura dei disturbi mentali e delle dipendenze patologiche. Chi ne è affetto in larga parte è imputabile e quindi se condannato deve scontare una pena.
Il diritto alla salute in carcere viene assicurato dai medici di medicina generale e dai dipartimenti di salute mentale delle Ausl competenti dopo la riforma del 2008.
Nell’ambito degli Istituti di Pena sono state attivate le Articolazioni Tutela Salute Mentale (ATSM) che nell’insieme hanno circa 295 posti. La questione della cura dei disturbi mentali è complessa e va risolta cambiando profondamente il modello detentivo assicurando alle persone con disturbi mentali adeguati percorsi alternativi, anche in deroga come previsto anche dalla sentenza 99/2019 della Corte Costituzionale. Le odierne cure psichiatriche articolate per intensità e complessità, prevedono interventi biopsicosociali attivabili investendo risorse nei dipartimenti di salute mentale, dotandoli di personale e strumenti nuovi come il budget di salute.
Occorre anche una forte responsabilizzazione e investimento nei servizi sociali per risolvere problemi di marginalità, assenza di documenti, povertà e solitudine.
Serve anche migliorare la qualità della detenzione e delle cure cambiando profondamente l’assistenza a chi non può usufruire di misure alternative.
La via non è quella di aumentare i posti delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS) che andrebbero riservate alle persone prosciolte con misure di sicurezza detentive definitive.
Oggi solo la metà dei posti delle REMS è occupato da persone con misure definitive.
Il tema delle persone detenute “sine titulo” al 5 luglio 2021 riguardava 64 soggetti (su circa 55 mila detenuti) e per il 90% erano con misure di sicurezza detentive provvisorie. Queste ultime sono il problema in quanto assumono funzioni di tipo cautelare e non sono affatto funzionali alla cura. Le misure detentive provvisorie non andrebbero applicate e il parlamento dovrebbe abolirle.
Invocare più posti REMS o di riportarle nella sfera di competenze del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria significa creare nuovi contenitori che ben presto diverranno saturi.
Bisogna cambiare le prassi secondo lo spirito della legge 81/2014 così ben ricordato da Zagrebelsky. La forza delle REMS sta nell’essere nei dipartimenti di salute mentale che al momento seguono sul territorio circa 6mila pazienti con misure giudiziarie ed assicurano prevenzione e turnover.
La lista di attesa per l’esecuzione delle misure di sicurezza va prevenuta e affrontata con un lavoro congiunto tra psichiatria e giustizia mediante specifici protocolli operativi che laddove attivati stanno funzionando bene. Il problema delle liste di attesa è concentrato in poche regioni (Lazio, Calabria, Sicilia, Campania) e credo che occorra riflettere sulle prassi in atto e sulla gestione delle priorità. La Corte Costituzionale che a breve si pronuncerà sulla materia, saprà tutelare una riforma epocale che ha portato dopo 140 anni a chiudere gli OPG, ritenuti dall’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, indegni di un paese appena civile.
Infine è tempo di assicurare pieni diritti e doveri alla persona con disturbi mentali, riconoscendo il diritto al giudizio (e non ad un incomprensibile proscioglimento), superando il doppio binario. In parlamento vi è in tal senso la proposta di legge 2939 dell’on. Riccardo Magi.
Un cordiale saluto
Pietro Pellegrini
Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche
Ausl di Parma