Il grande affare delle Rsa e la monocultura dell’assistenza. di Maria Grazia Giannichedda

Difficile credere che l’ordinanza ministeriale dello scorso 8 maggio sulle “visite in sicurezza” negli istituti assistenziali avrebbe dissuaso Giuseppe C. dal “tentativo di evasione”, così hanno scritto i giornali locali, dalla Rsa in cui viveva. Il signor Giuseppe aveva 91 anni, nessuna malattia contagiosa né invalidante, era molto provato dalla morte recente della moglie ma in contatto quotidiano con sua figlia, ed era “lucidissimo”, dicono gli operatori della struttura, e “molto gentile”, al punto che continuava a scusarsi quando era stato soccorso, sotto la finestra da cui si era calato durante il cambio di turno degli infermieri, utilizzando un tubo di gomma che aveva piazzato lui stesso. Una “fuga” pianificata dunque, che il 3 maggio gli è costata la vita.

La notizia è uscita qualche giorno dopo, insieme all’informazione che il magistrato non ha ritenuto di disporre un’inchiesta. Perché il signor Giuseppe era così deciso ad andar via? Inutile domandarcelo dato che sappiamo poco o niente di lui, possiamo immaginarlo come la vecchia Alfonsina di Ultima luna, il bel romanzo di Luce d’Eramo (Feltrinelli, 1992 e 2020), che muore mentre scappa dalla casa di riposo spinta da un suo dovere da compiere, e in questa (auto)determinazione trova una forza che il corpo non ha più.

Ma perché una persona lucidissima e in buone condizioni di salute non ha semplicemente infilato la porta per uscire? A questa domanda possiamo facilmente rispondere andando nel sito della Fondazione Ospedale Fagnani Galtrucco proprietaria della Rsa in cui il signor Giuseppe viveva. “L’ospite può liberamente uscire dalla struttura” – è scritto – “salvo le limitazioni imposte dal medico curante, e dopo aver firmato (autonomamente o da un accompagnatore autorizzato) l’apposito registro di entrata/uscita”. Dunque il signor Giuseppe sapeva bene che in realtà l’ospite non può uscire liberamente dalla struttura, e di qui “l’evasione” e la sua conclusione tragica.

Intendiamoci: in una struttura con 57 ospiti, che pure è relativamente piccola, è inevitabile una certa serialità nelle risposte ai bisogni degli ospiti e nella loro vita e non è realistico attendersi che ciascuna persona possa negoziare se quando e perché uscire e dove andare, magari con qualcuno che l’accompagni. Questo è possibile se una persona vive in casa propria con un assistente o “badante”, o in piccole convivenze di tre, cinque persone seguite da assistenti, quando la salute lo consente. Ma il signor Giuseppe era in buona salute: perché è finito in una Rsa?

Anche qui la risposta è semplice: nel piccolo comune di Robbio, neppure seimila abitanti non lontano da Pavia, l’assistenza alle persone anziane è sostanzialmente delegata all’istituto, come in gran parte della Lombardia e dell’Italia. Certo, ci sono molte eccezioni locali che prevedono assistenza nel proprio domicilio, che organizzano convivenze, che istituiscono forme di continuità tra domicilio e periodi di ricovero in strutture sanitarie e riabilitative: in sostanza esperienze che evitano di condannare le donne al ruolo di welfare gratuito e cercano di valorizzare le persone anziane e le loro risorse, che si degradano facilmente in strutture dove l’organizzazione è seriale, gli spazi anonimi e assente qualsiasi possibilità di autodeterminare momenti di vita. Ma da queste esperienze, che durano spesso da decenni, le politiche regionali sembrano non voler imparare, e dai morti di Covid nelle Rsa e affini sembrano aver imparato solo ad accrescere la chiusura dei luoghi e la sorveglianza delle persone, appena scalfita dall’ordinanza sulle “visite in sicurezza” di cui le regioni vanno fiere e su cui si è fatta un’evitabile retorica.

Il punto è che le residenze assistenziali, per anziani ma non solo, costituiscono per il privato un grande affare, che in questi anni è cresciuto in modo vistoso e incontrastato, mentre l’offerta di servizi di prossimità, finora a gestione pubblica o del privato sociale, è regredita o entrata in sofferenza. Secondo dati del ministero della salute, nel decennio 2007- 2017 le residenze assistenziali sono aumentate del 44%, da 5.105 a 7.372, e mentre nel 2007 le residenze assistenziali private erano il 72,8% del totale, nel 2017 sono diventate 6.070, cioè l’82,3% del totale.
Si tratta evidentemente di un mercato florido: grandi fondi di investimento come Numeria sgr (società di gestione del risparmio) puntano sulle Rsa, sia come costruzione che come gestione. I fondi del Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza, potrebbero riequilibrare questa monocultura del posto letto e della vecchiaia come merce, la ricerca e l’esperienza offrono buoni argomenti, i governanti dovrebbero avere un po’ di quel coraggio che chiedono ai cittadini.

FONTE: Il Manifesto

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