Saraceno, anche in riferimento alla strage di anziani e disabili accaduto in particolare nelle RSA lombarde, argomenta in modo serrato e severo intorno alla banalità e pericolosità del “letto” come risposta principale, spesso unica, alla domanda di protezione, salute, lungo assistenza di vecchi, matti, tossicodipendenti, disabili fisici e psichici, persone con malattie croniche e degenerative. E, sulla base delle documentate diffuse e dolorose esperienze, può affermare che “il modello biomedico e ospedaliero risulta sempre più inadeguato per rispondere alla complessità dei bisogni medici e psicosociali delle persone che soffrono di una malattia cronica”.
Da qui egli avanza la proposta di adottare, in alternativa ai posto letto ospedalieri o “residenziale protetti”, interventi psico-socio-sanitari di lunga durata (ILD) nelle comunità di vita intese sia come luoghi geografici che come “insieme di cittadini e risorse”. Protagonisti degli interventi psico-socio-sanitari di lunga durata sono, insieme agli utenti, i professionisti dei servizi sanitari, sociali, scolastici e della cultura, le associazioni del privato sociale. Così è possibile superare i limiti dell’approccio bio-medico in cui il paziente è “oggetto” delle scelte dei curanti; è possibile una “Medicina centrata sulla persona” del cittadino utente con problemi di salute insieme alle sue relazioni affettive e sociali.
Saraceno cita come paradigma di riferimento l’elaborazione di deep democracy secondo Arjun Appaduraj per la “costruzione di cittadinanza degli esclusi e dei più vulnerabili” nella vita di tutti i giorni, in percorsi di empowerment, di liberazione che restituiscano ( e riconoscano) voce, senso e potere ai tanti che ne sono rimasti o diventati sistematicamente privati. Questo comporta, ovviamente, un assetto radicalmente rinnovato delle culture professionali e dell’organizzazione dei servizi alla persona: di qui la riproposizione della “Casa della Salute” [1] in cui operano “una pluralità di soggetti, pubblici e del privato sociale, che, con la regia del pubblico, perseguono il bene della collettività”. La “Casa della Salute”, articolazione territoriale del Distretto Socio-sanitario, richiede, consente una “clinica” nuova che non obbliga il paziente nel letto.
Le argomentazioni e le proposte di Benedetto Saraceno, che condivido pienamente, sollecitano e pretendono un grande sforzo di riflessione critica e di innovazione nei luoghi di lavoro e nelle culture professionali che innervano il Servizio sanitario nazionale e i Servizi di salute mentale. Osservo,e aggiungo, che in un assetto dei servizi sanitari pubblici centrato su Comunità locali resilienti, raccolte intorno ai loro Municipi e protagoniste della salute dei propri cittadini si dovrà pure, finalmente, prendere atto che da decenni anche quella italiana è diventata una società multiculturale nella quale, accanto alle nostre autoctone, vivono, lavorano e studiano comunità, famiglie, persone che vengono da Africa, Asia, Centro e Sud America, Est-Europa, Medio Oriente portando con sé culture non-occidentali, culti religiosi diversi da quelli cristiano cattolico, protestante valdese, ebraico. Questi nostri concittadini, quando stanno male, declinano la loro sofferenza secondo assunti, codici diversi dai nostri. È per questo che il nostro sapere medico non riesce a operare con efficacia nell’intera area della sofferenza espressa dagli individui appartenenti ad altre culture. E, ancora, riconoscendo le nostre difficoltà e i nostri fallimenti, non negando le diversità, possiamo contribuire alla valorizzazione di intere culture o di parti importanti di altre culture.
Per tali ragioni anche etiche, per riuscire a evitare, insieme alla negazione del diritto alla salute, catastrofi culturali e umane dobbiamo finalmente sapere, riconoscere che esistono sistemi di cura organizzati localmente e coerenti con strutture sociali storicamente determinate; considerare che esistono diverse tecniche terapeutiche efficaci all’interno del loro quadro di applicazione culturale; riconoscere che esistono configurazioni di disturbo mentale difficilmente comparabili tra di loro.
Questo comporta l’urgenza e la necessità di sensibilizzare e formare i nostri professionisti della salute alla variabilità culturale, al rispetto delle differenze e a favorire opportunità di fruizione ed esercizio delle terapeutiche culturalmente determinate; valorizzare le risorse disponibili sul territorio, facilitare la costituzione di raggruppamenti di auto-aiuto che favoriscano l’accesso e la qualità dell’accoglienza dei servizi . Nonché il dovere di ripensare criticamente le discipline psicologico-psichiatriche occidentali
L’assistenza psichiatrica pubblica italiana è stata attraversata nella seconda metà del secolo scorso da una radicale trasformazione che ha portato alla chiusura dei manicomi e all’apertura di servizi pensati per essere (o dover essere) radicati nei territori, nelle comunità locali.
Si è trattato e si tratta di una grande quantità di esperienze nelle quali, partendo dalla critica dell’impianto manicomiale della psichiatria italiana, si è affermato l’approccio bio-psico-sociale. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che, nell’Italia della prima metà del ‘900 fino al secondo dopoguerra, la psicologia era egemonizzata dalla figura dal duramente anti-freudiano padre Gemelli, la psichiatria dalle culture manicomiali e biologistiche (l’ECT di Cerletti ne fu l’apice), la medicina dal costituzionalismo di Pende.
Questo per dire che le profonde trasformazioni culminate nell’approvazione della legge 180 sono state rese possibili non solo per l’impegno dei rivoluzionari/riformatori e della politica, ma anche perché sostenute, alimentate e accompagnate da una vera e propria “irruzione” nelle culture degli operatori sanitari e sociali italiani delle letterature delle scienze psicologiche e delle scuole psicoanalitiche, delle sociologie soprattutto anglosassoni e francesi e dalla istituzione di corsi laurea e cattedre di psicologia e di sociologia che hanno formato decine di migliaia di nuovi professionisti: un enorme investimento in aggiornamento e apprendimento. Hanno potuto crescere così nei differenti territori numerose esperienze nelle quali la psichiatria di comunità si è richiamata per lo più agli ambiti della psichiatria sociale.
In questo sommovimento critico e progettuale anti-istituzionale delle idee e delle pratiche sono rimaste tagliate fuori, come annotano Cardamone e Matteini, la lezione dell’antropologia critica di Ernesto De Martino, la ricerca di Michele Risso che quindi non hanno potuto “innervare la psichiatria riformatrice nel momento in cui il modello manicomiale veniva messo radicalmente in crisi e si dava avvio alla nascita dei servizi su base territoriale, nonostante la possibilità di confrontarsi con la molteplicità dei modelli culturali autoctoni riguardo alla malattia e alla cura, seppure popolari e subalterni”. La conseguenza è stata che i nostri Dipartimenti di salute mentale non hanno potuto e non possono fruire degli scambi fra le discipline psicologico-psichiatriche ed i saperi non-scientifici (religiosi, tradizionali, ecc.) a cui sono connesse comunque le pratiche di cura. Ed è mancato e manca ancora nei servizi territoriali italiani un rapporto consolidato con l’alterità culturale, rapporto che va elaborato a livello istituzionale ed organizzativo ed in seguito declinato sia sul piano della psichiatria clinica che su quello della psichiatria di comunità.
È vero che in Africa (Piero Coppo) e sul territorio nazionale sono state condotte comunque esperienze importanti ad opera di psichiatri come Roberto Beneduce, Giuseppe Cardamone, Salvatore Inglese formatisi alla scuola di Tobie Nathan, ma sono rimaste tuttavia marginali, spesso ignorate, insieme allo studio dell’antropologia medica che pure ha visto impegnato in prima fila un grande studioso e maestro come Tullio Seppilli. Così come va ricordata la riluttanza a ritornare sulle vicende del colonialismo italiano in età liberale prima e fascista poi, psichiatria coloniale compresa. Un nodo che definirei “storico”, che non è stato del tutto sciolto, un grande limite che continuiamo a pagare, in particolare, sul piano della qualità della presa in carico delle persone con disturbi mentali appartenenti a culture non-occidentali: una grande sfida per le culture professionali degli operatori sanitari e sociali.
Possiamo, dobbiamo allora cogliere l’occasione unica e straordinaria del ripensamento critico in corso sugli assetti e le culture del Servizio sanitario nazionale e dei servizi per la salute mentale, stressati dalla pandemia da Covid 19 per riuscire a innovare scenari e saperi, corsi di laurea, formazione di base e continua, aggiornare i piani di intervento, sviluppare nuovi filoni di ricerca, potenziare la mediazione linguistica culturale, l’organizzazione e l’accessibilità dei servizi: tutto quanto è utile alla conoscenza profonda dei territori e delle comunità che li abitano.
È una sfida che le Case della Salute possono raccogliere, far propria anche per consentirci di smetterla di continuare a rinchiudere in approcci pressoché esclusivamente emergenziali e “umanitari” la questione del diritto alla salute (mentale) delle persone che vivono accanto a noi, appartengono a culture non-occidentali altre dalle nostre e che come tali vanno riconosciute e rispettate.
Mantova, 29 settembre 2020