Il letto in ospedale e il letto fuori dall’ospedale rappresentano l’unica risposta del sistema sanitario La Pandemia del Covid ha mostrato a tutti i cittadini come i letti nei reparti di terapia intensiva e rianimazione siano stati e continueranno ad essere un presidio fondamentale per la cura di quei pazienti gravi bisognosi di interventi intensi e intensivi.
La ecatombe degli anziani nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) ha mostrato come persone in età avanzata e spesso non autosufficienti «abitano» fondamentalmente in un letto. La questione che dobbiamo porci e con urgenza è quella del «letto» come unica e povera risposta del sistema sanitario, come se, prima e dopo il letto, non ci fossero fondamentali e spesso sufficienti risposte alla domanda di salute dei cittadini. Dobbiamo decostruire la nozione di letto come falso sinonimo di cura.
Durante la pandemia, gli ospedali si sono rapidamente saturati infatti non solo per l’incremento massiccio di casi gravissimi bisognosi di presidi di rianimazione, dunque di letti attrezzati come indispensabili presidi terapeutici, ma anche perché molti casi che non erano gravi non si sono saputi gestire a casa o in strutture meno medicalizzate di un ospedale. In altre parole, mancano la cultura, le organizzazioni e le infrastrutture per operare anche al di fuori dall’ospedale, anche al di là della dimensione ospedaliera del letto.
Molti casi sono stati lasciati ad aggravarsi a casa senza la capacità di offrire alcun intervento di mitigazione che impedisse l’aggravamento; moltissimi anziani ospitati in residenze specializzate sono morti per l’incapacità di intervenire in strutture che non fossero «ospedali» ma che sono caratterizzate da una forte componente assistenziale sociale non medica. Dunque il letto in ospedale è stata la sola risposta accanto alla indispensabile adozione di misure di distanziamento sociale. In sostanza, fra l’ospedalizzazione in urgenza e il senso civico individuale dei singoli che rispettano il confinamento non c’è stato nulla nel mezzo.
Ma quello su cui qui si vuole riflettere è il ruolo illusorio, concreto e simbolico, del letto come sinonimo di cura. Non c’è dubbio infatti che anche «prima» della pandemia il letto rappresentava e continua a rappresentare «la risposta» prevalente alle patologie di lunga durata, soprattutto quelle psichiatriche: il termine «residenzialità» è divenuto dominante in quasi tutti i sistemi sanitari regionali ove abbondano forme diverse di residenze, più o meno protette, più o meno manicomiali, pubbliche o private o private convenzionate. Ma la residenzialità non allude tanto a un luogo di vita integrata, sociale e socializzata, a un luogo che sia parte reale della comunità circostante, bensì allude alla presenza di letti utilizzati secondo la logica dell’ospedale. Letti per vecchi, letti per matti, letti per tossicodipendenti, letti per disabili fisici e psichici. Il letto sembra essere l’unica risposta immaginata e resa disponibile anche a chi invece non ha bisogno di un letto se non per dormire e, in conseguenza, i cosiddetti «cronici» devono non solo dormire in un letto ma abitarvi come se il letto fosse la unica dimensione della cura e della riabilitazione. Se riflettiamo attentamente, tutte le patologie croniche, indipendentemente dalle loro cause (infezioni trasmissibili o non), condividono alcune caratteristiche fondamentali: sono condizioni persistenti e richiedono trattamenti, assistenza e interventi protratti nel tempo e di durata indefinita.
Dunque, è la dimensione della temporalità che definisce e accomuna le patologie croniche poiché sofferenza e disabilità sono di lunga durata e conseguentemente anche cura e assistenza devono perdurare. Queste caratteristiche accomunano alcune malattie infettive che, oltre ad essere trasmissibili, sono anche persistenti come è il caso dell’AIDS e della Tubercolosi alle malattie non-trasmissibili (dette NCDs) come i tumori, le patologie cardiovascolari, il diabete e la maggior parte dei disturbi mentali e del comportamento. A queste due categorie (trasmissibili persistenti e non trasmissibili) vanno aggiunte tutte le condizioni di disabilità dovuta a danni strutturali (cecità, sordità, amputazioni). Le NCDs, le malattie mentali e più in generale tutte le malattie croniche (dunque anche quelle infettive come l’AIDS o la tubercolosi) sfidano il modello dominante di assistenza sanitaria e richiedono modelli altamente innovativi di assistenza capaci di coniugare interventi sanitari e interventi di sostegno psicosociale [1] … leggi l’articolo completo su RPS
1 World Health Organization, 2002, Innovative care for chronic conditions: building blocks for action, WHO, Geneva.