“Articolata su tre piani per complessivi duemila metri quadri, è pensata per garantire una riabilitazione, sia di tipo intensivo sia estensivo, a pazienti psichiatrici che, per alcuni mesi, hanno necessità di isolarsi dal contesto di vita abituale”. La Asl Na2 Nord presenta così la Residenza di riabilitazione psichiatrica per quaranta persone inaugurata il 23 giugno ad Arzano (provincia di Napoli), in pompa magna, dal presidente della Regione Vincenzo De Luca e dal direttore generale dell’Asl Antonio D’Amore.
Il punto di forza di questa esperienza, secondo l’Asl, sarebbe un laboratorio sartoriale realizzato in collaborazione con un’azienda del ramo, per giungere alla produzione di una linea di cravatte, prodotte dai pazienti, ma con il marchio dell’azienda stessa (senza alcuna indicazione di possibilità di assunzione, retribuzione o altro). Se il direttore dell’Asl, ricorrendo alla retorica adolescenziale-maschilista, misura la qualità sulle dimensioni – «questa è una delle Residenze di riabilitazione psichiatrica pubbliche più grandi in Italia e di questo siamo estremamente orgogliosi» – l’enfasi del presidente della Regione, in piena campagna elettorale, rincorre i vacui concetti di eccezionalità ed eccellenza della sanità campana, ormai stanca consuetudine di questi mesi. Così la Residenza diventa «una cosa di cui saremo orgogliosi in tutta la Campania, perché non c’è in Campania una struttura come questa, un lavoro eccezionale». Ancora: «Avevamo il dovere di affrontare in maniera seria il problema della sofferenza psichica, e con questa struttura noi diamo una risposta di eccellenza», e così via, ripetendo che «sarà difficile trovare in altre regioni d’Italia una struttura come questa. Noi ci impegniamo a moltiplicare in almeno altri due casi queste strutture di accoglienza. Ne abbiamo in altre parti della regione ma sono piccole strutture, qui abbiamo la possibilità di ospitare quaranta pazienti, venti in terapia intensiva, venti in sub-intensiva (dice proprio così, forse confondendo un po’ tematiche e interventi sanitari, ndr)».
Non manca il passaggio, un po’ ardito, sulla creazione di occupazione che deriverebbe da questi duemila metri quadri, senza specificare quali concorsi, quali contratti, quali condizioni lavorative. Naturalmente, a fronte di graduatorie bloccate e fame di lavoro, ogni occasione può diventare promessa/speranza di assunzione. «Qui – continua De Luca – lavoreranno decine di medici, di psicologi, di infermieri, di Oss, quindi è anche lavoro che abbiamo creato». Infine, il reinserimento socio-lavorativo delle persone con sofferenza psichica e l’apertura al territorio, cardini dell’assistenza psichiatrica post-manicomiale, sarebbero testimoniati, secondo De Luca, da qualche lavoretto di ceramica, tessile e pittorico, e dai quadri realizzati dai pazienti, o meglio dai “ragazzi” e dalle “ragazze”, ché l’infantilizzazione resta sempre presupposto del discorso: «Questo livello di assistenza che proponiamo è davvero di altissima qualità. Dal punto di vista medico, dal punto di vista psicologico, dal punto di vista scientifico, dal punto di vista dell’inserimento sociale… Abbiamo visitato tutti quanti i laboratori, abbiamo visto le produzioni delle ragazze e dei ragazzi: le produzioni di ceramica, le mascherine, le produzioni tessili che si legano bene a questa zona industriale che ha tante eccellenze nel campo della sartoria e del tessile… Non abbiamo un luogo di segregazione, abbiamo una struttura aperta per le famiglie, ma anche di collegamento con le attività sociali: avete visto i quadri nei corridoi dipinti dagli stessi pazienti di questa struttura. È una cosa bellissima, veramente questa è una di quelle realizzazioni di cui essere assolutamente orgogliosi».
Sono tante le questioni che emergono. Ancora una volta, i fondi pubblici, anziché essere destinati a potenziare una sanità territoriale di comunità, sono spesi per vecchi e spesso fallimentari modelli post-manicomiali di residenze riabilitative. La qualità degli interventi non è misurata sulle reali attività messe in campo, sui modelli teorici e operazionali seguiti, ma sul numero dei posti disponibili (che qui giunge addirittura a quaranta) e sui metri quadri della struttura. Il reinserimento socio-lavorativo si traduce nell’alienazione ergo-terapica dei laboratori di ceramica e pittura e in qualche lavoro sartoriale che non è finalizzato ad alcun processo d’impresa che coinvolga i soggetti fragili. Le persone con sofferenza psichica sono reificate e categorizzate come un’unica, indistinguibile, monade sofferente, mentre la sola soluzione prospettata alle loro famiglie resta quella di un deposito nel quale scaricare per un po’ di tempo il problema. Soprattutto, nelle parole usate e nelle immagini che accompagnano la propaganda da inaugurazione, torna il manicomio. È vero, chi ha conosciuto il manicomio, lo ha spesso descritto a partire da quel “tanfo di piscio e di merda” che impregnava pavimenti lerci e muri scrostati, celle spoglie, spesso sporche di escrementi; elementi che, con altri, mostravano drammaticamente le forme di abbandono e segregazione cui erano costretti uomini, donne e bambini. Nulla di tutto questo è nella struttura di Arzano, così nuova, pulita, splendente. Eppure, è proprio il manicomio a porre le fondamenta di una residenza psichiatrica nata con l’obiettivo di “isolare il paziente dal contesto di vita abituale”, di sottrarlo cioè alla sua vita e relegarlo in uno spazio altro. Perché il manicomio, non è solo nelle grandi strutture ottocentesche, non è solo il loro tanfo, non è solo la loro violenza istituzionale. Il manicomio è, innanzitutto, un paradigma di internamento ed esclusione, isolamento e infantilizzazione, mancato riconoscimento dei diritti e mutilazione della dignità, sopravvissuto alla chiusura degli ospedali psichiatrici. E come in tante Rsa per anziani, si ripropone, metamorfizzato ma con le stesse logiche e prassi, anche in luoghi abbelliti, puliti e profumati per le inaugurazioni, ma sempre abissalmente lontani dalla responsabilità della cura.
La Campania è ai livelli più bassi in Italia per investimenti in salute mentale, superando a stento la quota del 2% della spesa sanitaria, a fronte di una media nazionale del 3,5% e di un fabbisogno reale del 5%. Il periodo pandemico ha dimostrato il fallimento dei modelli di internamento residenziale (per anziani e persone con disabilità fisica e psichica) e la necessità di investimenti sulla sanità territoriale, di comunità, anche e innanzitutto per la salute mentale. Ci sono strumenti socio-sanitari, come i budget di salute, che potrebbero essere molto utili in questa direzione, puntando a rafforzare l’autonomia e valorizzare i diritti di cittadinanza (all’abitare, al lavoro, alla socialità) delle persone più fragili. Si potrebbe puntare su questo, si potrebbe assumere la sfida culturale e politica di una nuova stagione di de-istituzionalizzazione, si potrebbe pensare e agire per la tutela dei diritti e la risposta ai bisogni delle persone. E invece viene inaugurata come eccellenza l’ennesima residenza di esclusione e isolamento. E ancora, se si iniziano a scorgere i nomi nelle liste dei candidati, si trovano parenti e affini degli imprenditori privati delle grandi residenze di internamento. Perché siamo in campagna elettorale, e la salute mentale torna mestamente in manicomio.