La pandemia ci dovrebbe indurre a ripensare in modo sostanziale il nostro modo di vivere, le priorità da assegnare al bene salute e il ruolo del sistema di welfare. Ho usato espressamente il termine ripensare perché credo che non possiamo auspicare il semplice ritorno alla normalità: perché “la normalità era il problema” intervista a Nerina Dirindin a cura di Fabio Ragaini.
Lo scorso 20 aprile scrivevi “Mi viene da piangere perché ho paura che non ci si impegni abbastanza a prendere appunti, per quando l’emergenza sarà allentata e tutto potrebbe tornare come prima”. A distanza di un mese, con l’emergenza che si sta allentando, sono cambiate le tue preoccupazioni?
In questo periodo ho continuato a prendere appunti, con il cuore pieno di timori non solo per le sirene delle ambulanze che continuamente sento sfrecciare in città, ma anche per le preoccupazioni che tante persone mi hanno trasmesso.
La pandemia ci dovrebbe indurre a ripensare in modo sostanziale il nostro modo di vivere, le priorità da assegnare al bene salute e il ruolo del sistema di welfare. Ho usato espressamente il termine ripensare perché credo che, riprendendo un’affermazione contenuta nel libro uscito proprio in questi giorni “Niente di questo mondo ci risulta indifferente. Associazione Laudato si’”, non possiamo auspicare il semplice ritorno alla normalità: perché “la normalità era il problema”. Non possiamo ripartire da dove ci siamo fermati quando è scoppiata la pandemia, perché il punto in cui ci siamo fermati era stato costruito su basi fragili, frutto di una disattenzione alle persone e in particolare ai più vulnerabili, basato sul culto dell’efficienza e della produttività anche in quei settori, come la sanità e il sociale, dove dovrebbe prevalere l’attenzione al benessere individuale e collettivo. Non voglio certo sostenere che l’uso accorto delle risorse sia un obiettivo da ripensare, perché ogni briciola sprecata è da condannare, ma sono gli obiettivi a cui indirizzare le risorse che vanno ripensati: l’attività degli ospedali (privati) non può essere considerata un business da cui trarre ogni possibile rendimento a prescindere dalla loro integrazione con il resto del sistema sanitario, le strutture residenziali non possono essere considerate un investimento redditizio per i finanziatori privati a prescindere dal tipo di vita che si offre agli ospiti, la proprietà intellettuale di farmaci innovativi e vaccini non può essere sfruttata fino al punto da rendere inaccessibili trattamenti essenziali per parte della popolazione, un anziano cronico non può essere considerato una fonte permanente di entrate (quando consuma molti farmaci, accertamenti o ricoveri) o alternativamente un ostacolo all’aumento del Pil, un costo per la società, un impedimento per il “normale” svolgimento della vita delle città. Nell’ultimo decennio, le aziende sanitarie hanno accolto acriticamente interventi nel campo della logistica, dell’accentramento dei rifornimenti, della gestione dei magazzini che hanno fatto credere ai decisori di poter realizzare importanti risparmi acquistando al minimo ribasso a prescindere dalla qualità e dalla continuità delle forniture, riducendo le scorte di materiale indispensabile in condizioni di emergenza, ricorrendo a grandi produttori internazionali che esercitano posizioni dominanti sul mercato, rinunciando a ricorrere ai produttori locali (ad esempio per le mense) che in molti casi avrebbero potuto garantire una più ampia responsabilizzazione del territorio rispetto agli obiettivi del sistema sanitario. Tutto ciò dovrebbe essere oggetto di un ripensamento sereno e coraggioso. Dobbiamo ricominciare, non ripartire dal punto in cui ci siamo fermati.
Ti occupi da tantissimi anni di politiche sanitarie. Sia come professore universitario ma anche attraverso gli incarichi istituzionali che hai assunto. Ci sarà tempo per analisi più approfondite, ma è chiaro che la pandemia ci ha trovati impreparati su più versanti. Contiamo, ad oggi, più di 30.000 morti accertati e sappiamo che a questi un gran numero se ne può aggiungere. Si è messo l’accento sulla carenza dei posti in terapia intensiva, di meno mi sembra sulle carenze dei servizi territoriali, e certo prima di programmi di prevenzione, che avrebbero potuto ridurre il numero di persone che hanno avuto necessità di ricovero ospedalieri e di terapia intensiva. Dobbiamo capire dove e perché abbiamo sbagliato.
Con la pandemia, un servizio sanitario che per anni è stato sottovalutato, qualche volta persino snobbato, è apparso un ombrello di protezione a cui nessuno pensa più di poter rinunciare. Ma la pandemia ci ha trovati con un ombrello bucato.
Non per l’assenza di un Piano Nazionale per la pandemia (per anni non aggiornato), ma per il diffuso disimpegno culturale e operativo sulla prevenzione collettiva (i Dipartimenti di Prevenzione delle Asl sono stati ridimensionati per anni; il Centro nazionale di Epidemiologia dell’ISS è stato chiuso nel 2016).
Non per la ridotta dotazione di posti letto ospedalieri (in Italia abbiamo circa il 60% in meno di posti letto totali della Germania; e per la terapia intensiva abbiamo meno della metà dei posti letto della Germania) e ma per l’inadeguatezza dell’assistenza territoriale, che deve intervenire prima che sia necessario il ricovero in ospedale.
Non per la carenza di personale (dal 2009 la sanità pubblica ha perso oltre 40 mila unità di personale), ma per la scelta esecrabile di risparmiare sul personale in un settore ad alta intensità di lavoro.
Non per l’inadeguatezza delle RSA di fronte al coronavirus, ma per l’abitudine a considerare normale il ricorso alle strutture residenziali come risposta ordinaria alla non autosufficienza.
Per anni abbiamo creduto (sbagliando) che l’eccellenza in sanità coincidesse con l’alta tecnologia, le specializzazioni, l’assistenza ospedaliera per le acuzie. E abbiamo dimenticato il distretto. Mentre ora ci accorgiamo che per essere eccellente una sanità deve eccellere in tutti gli ambiti dell’assistenza, compresa la prevenzione e il territorio; altrimenti si tratta al massimo di una eccellenza parziale, monca, che può mettere a rischio la salute delle persone.
Sempre nelle tue riflessioni del 20 aprile affronti la dolorosissima situazione delle morti nelle residenze per anziani. Evidenziavi alcuni aspetti. a) evitare di immaginare che la risposta a situazioni di fragilità e non autosufficienza sia, ordinariamente, quella residenziale, b) riflettere sulla organizzazione dell’assistenza, c) prendere atto che soprattutto negli ultimi anni il “mercato” è entrato prepotentemente in questo ambito. Mi permetto di aggiungere le carenze programmatorie regionali appiattite sull’amministrazione dell’esistente e incapaci di immaginare percorsi diversi. Ho peraltro l’impressione, che anche nelle riflessioni di questi giorni, si tenda a portare l’attenzione sulla necessità di assicurare adeguate risorse al fine di garantire servizi più efficienti ma non si metta in discussione il modello della grande struttura e della sua “efficienza gestionale”. Il tema dell’abitare e della qualità di vita delle persone sembra, contemporaneamente, scomparire dagli obiettivi dei servizi. Io vivo in una Regione nella quale la giunta regionale, spalleggiata dalla gran parte degli enti gestori, ritiene che si possa ancora vivere in residenze con camere con 4 letti.
Condivido la tua precisazione: le amministrazioni regionali sono appiattite sull’esistente e incapaci di proporre soluzioni alternative. Mi preoccupa il disimpegno con il quale si limitano ad aumentare l’offerta di posti letto (negli ultimi 10 anni i posti letto nelle strutture sanitarie residenziali sono aumentati del 27%), a tollerare livelli di servizi relativamente modesti (come accade quando le strutture sono di grandi dimensioni, la dotazione di personale è risicata, i pazienti sono allettati e contenuti), a contenere le tariffe giornaliere e di conseguenza gli standard previsti per l’accreditamento. Ancora più preoccupante è il disimpegno sull’assistenza domiciliare: troppo frequentemente sentiamo giustificare l’aumento dell’offerta di residenzialità con l’elevata domanda di ricovero, testimoniata dalle lunghe liste di attesa per l’inserimento nelle residenze. Ma quali sono le cause di tali richieste? Alcuni fattori possono essere facilmente elencati: famiglie sempre più piccole, aumento dell’occupazione femminile, riduzione del numero medio di figli per coppia, aumento della cronicità, crescita della non autosufficienza, ecc. Ma anche in questo caso bisognerebbe domandarci qual è la causa originaria dell’aumento della domanda di ricovero in residenze. La risposta, a mio giudizio, è che non ci sono politiche per il mantenimento delle persone fragili al proprio domicilio, quando lo vogliono e quando è possibile. E non ci sono perché è per tutti, salvo per le persone fragile e i loro cari, più facile, meno impegnativo ricorrere alla soluzione che il mercato ti propone: il trasferimento in strutture residenziali. Quanti anziani vorrebbero poter restare a casa propria, purché adeguatamente sostenuti? Quante famiglie potrebbero prendersi cura di un anziano se il sistema di welfare garantisse loro servizi a domicilio? E invece il nostro welfare ha sempre privilegiato le prestazioni monetarie (ad es. l’assegno di accompagnamento) anziché una rete di servizi sociali e sanitari. E’ per questo che nella maggior parte dei casi le persone richiedono l’inserimento nella lista di attesa per il ricovero in strutture residenziali: perché c’è poco altro sul territorio, purtroppo. Dobbiamo ripensare completamente l’assistenza a tutte le persone non autosufficienti. Le strutture residenziali devono offrire ospitalità quando non è possibile fare diversamente, o quando è liberamente scelto dalla persona fragile. I tanti interventi di razionalizzazione della spesa sanitaria hanno sempre dimenticato questa possibile linea di azione: curare le persone a casa costa meno e fa stare meglio i pazienti. E invece il settore della residenzialità sta crescendo in continuazione, nella dimensione dell’offerta e nei valori del fatturato, coinvolgendo interessi di grandi finanziatori, di grandi imprenditori, di esponenti politici: si osservano fenomeni di riorganizzazione d’impresa, di ingresso di multinazionali, di ricorso a logiche gestionali volte al profitto per garantire una elevata remunerazione del capitale investito. Si tratta sempre più di un vero mercato redditizio, non di un servizio alle persone.
Scrivi ancora “la povertà rende le epidemie più aggressive, nei paesi ricchi come nel resto del mondo. Il contrasto alle diseguaglianze è un dovere, e conviene a tutti: dovremo farlo capire anche a chi di solito è distratto”. Questo è un altro aspetto cruciale che non dovremmo dimenticare.
Il problema delle diseguaglianze nella salute è diffuso in tutti i paesi, anche se la sua intensità dipende dal sistema di welfare esistente.
In tutti i paesi, le classi socio-economiche più svantaggiate (e meno istruite) sono meno in grado di trarre beneficio dalle strutture sanitarie esistenti e meno in grado di recuperare le condizioni di salute preesistenti alla malattia. I meno abbienti hanno minore capacità di scelta (fra le diverse opzioni disponibili), minore probabilità di seguire i percorsi più adeguati, minore capacità di adesione ai programmi terapeutici, maggiori difficoltà di interazioni con gli operatori sanitari. Ciò è vero anche nei sistemi universalistici, ma è drammaticamente vero nei paesi con sistemi sanitari privati o differenziati in base alla condizione socio-economica o lavorativa delle persone, dove le iniquità sono di gran lunga più elevate.
Per questo è importante comprendere il ruolo dei determinanti sociali della salute e battersi, in tutti i paesi, per politiche sanitarie pubbliche che tutelino il diritto fondamentale alla salute nell’interesse di ogni persona e dell’intera comunità.
Voglio qui ricordare una delle 10 raccomandazioni che il Prof. Gordon della Bristol University scrisse nel 1999 per esortare gli individui a preservare la loro salute: «Non essere povero. Se lo sei cerca di smettere».
La raccomandazione, volutamene provocatoria, segue un approccio alternativo rispetto a quello tradizionale: si concentra sul ruolo dei determinanti sociali della salute anziché sui comportamenti individuali. Nel formulare le sue raccomandazioni, Gordon evoca il classico suggerimento degli oncologi che mettono al primo posto il consiglio «Non fumare. Se puoi, smetti. Se non ce la fai, riduci il numero di sigarette che fumi quotidianamente». Difficile non concordare con l’invito a smettere di fumare, ma sappiamo che non basta, perché trascura elementi che sono al di fuori del controllo dei singoli individui. Un approccio alternativo, sempre di sanità pubblica, è quello che mette al primo posto l’esortazione di Gordon: «Non essere povero. Se puoi smetti, Se non ci riesci, cerca di essere povero per il minor tempo possibile». La povertà è infatti il primo fattore di rischio per la salute. Sostenere la responsabilità del singolo rispetto alla propria salute è importante, ma ancor più importante è contrastare ovunque possibile la dimensione sociale, materiale e politica che mette a rischio la salute delle persone e che richiede interventi pubblici di tipo intersettoriale.
Porre l’enfasi sui comportamenti individuali (che certamente non sono da trascurare) sopravvaluta le responsabilità personali e oscura il ruolo delle politiche, industriali, agricole, del lavoro, di welfare. E se si diffonde l’idea (malsana) che la salute è una questione di responsabilità individuali si creano i presupposti per un forte disimpegno delle politiche pubbliche (con la scusa che tutto dipende da come ti comporti quotidianamente) e per un indebolimento del principio di solidarietà nel finanziamento dei sistemi di protezione (se la tua salute dipende da te, i costi delle cure devono ricadere su di te).
Riprendo, sempre con riferimento all’emergenza Covid, un tuo scritto nel quali hai ripreso “Lettera a una professoressa” e la lezione di Don Milani, “Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. In questo contesto cosa può significare “uscire dall’emergenza insieme”?
Mai come in questa emergenza ci siamo resi conto di come la salute individuale sia strettamente legata alla salute collettiva. Perché nelle epidemie la salute di ognuno di noi dipende da quella degli altri e perché a ognuno di noi può capitare di avere un grave problema di salute dal quale non sarebbe possibile uscire senza poter contare sulla solidarietà implicita nel nostro sistema universalistico.
Chi di noi, dopo la tremenda emergenza di questi mesi, vorrebbe vivere in un paese che non si preoccupa di chi sta peggio, di chi è colpito da una grave malattia, di chi è povero e non ha i mezzi per curarsi? Forse, dopo la pandemia, le sirene delle compagnie di assicurazione e dei fondi sanitari integrativi avranno meno orecchie pronte ad ascoltarli (e forse più vergogna a farsi sentire), perché a tutti è diventato chiaro ciò che stavamo per dimenticare: un sistema sanitario in cui tutti sono trattati allo stesso modo e che non chiede a nessuno di pagare le cure al momento del bisogno è il migliore dei sistemi possibili. Viviamo in un paese in cui, grazie alla Costituzione e alla legge 833/78 abbiamo potuto affrontare l’emergenza Coronavirus senza aggiungere alla sofferenza della malattia e alla paura della morte la preoccupazione del costo di trattamenti che avrebbero potuto essere insostenibili per gran parte delle famiglie italiane. E nessuna persona esposta al rischio di disoccupazione, fenomeno purtroppo non raro nell’attuale profonda crisi economica, ha temuto di perdere il diritto alle cure insieme al posto di lavoro. Non è poco. E ce ne stiamo rendendo conto (forse) solo ora. Non dimentichiamolo.
Nerina Dirindin, Associazione Salute diritto fondamentale è docente di economia pubblica e politica sanitaria Università di Torino. Senatore nella precedente legislatura, è stata assessore alla sanità della regione Sardegna e direttore generale della programmazione al Ministero della Sanità.