1.
Da molti giorni sono chiusa in casa, vivo sola e isolata tra le mie quattro mura domestiche. Ho cibo sufficiente per sopravvivere autarchicamente ancora per qualche tempo. Non indeterminato, però.
Le prescrizioni comportamentali dettate dal Governo come prevenzione e contrasto alla diffusione della pandemia del coronavirus mi obbligano a una clausura forzata che ha stravolto la mia vita.
Le mie abitudini quotidiane, soprattutto la socialità conquistata lentamente e a fatica, sono messe a dura prova. Resisto, mossa da una filosofia protettiva che spero possa diluirsi nel tempo, almeno per il tempo di quarantena che mi viene imposto.
Cerco di assaporare la lentezza, il tempo lungo delle giornate, la cancellazione della fretta e anche dell’ansia che certi impegni creavano in me. Un tempo libero ragionato, che cerco di riempire con piccoli, fragili gesti di cura della mia persona, di preparazione di pietanze semplici ma gustose, di godimento di certi angoli della mia casa, quasi riscoperti, ed ora vissuti con appagamento.
Non so se tutto questo è un rito narcisistico di autosufficienza. Perché ho bisogno anche di avere contatti col mondo esterno, e allora il telefono, il computer, il televisore sono media utili ed efficaci.
Sto cercando di vivere il più possibile serenamente, accettando, quello che devo fare comunque. Vivo alla giornata, paga del silenzio e della tranquillità apparente intorno a me, calata nella mia interiorità.
Il mio è un grido d’allarme
2.
Tra breve scade il periodo della fiala mensile, una iniezione di aloperidolo, e andrò al Centro di salute mentale di Barcola a prendere il farmaco con il bus che rispetta un orario ridotto. In tempi di coronavirus i rapporti con i Centri per le persone con esperienza di sofferenza mentale si sono ridotte all’andata, breve e contingentata, finalizzata all’assunzione di farmaci. Si entra obbligatoriamente uno alla volta, gli altri aspettano, a distanza convenzionale di un metro, fuori della porta.
Anche la vita all’interno delle Associazioni convenzionate con il Dipartimento di salute mentale e l’Azienza Sanitaria regionale si è totalmente rarefatta: le attività, le riunioni in gruppi organizzativi, ludici, terapeutici, sportivi o culturali sono interdette. Resta possibile ancora solo l’andata a casa delle persone, che hanno bisogno di essere sostenute, da parte di medici, infermieri, operatori socio-sanitari, esclusivamente nel rapporto uno a uno. Comunque una possibilità importante, ma insufficiente a creare reale salute.
Il mio è un grido d’allarme, una preoccupazione concreta, condivisa anche dalle persone afferenti all’Associazione dei famigliari (AFASOP) e dai membri delle altre associazioni: viviamo il pericolo reale di una regressione di tutto il sistema salute mentale, così a livello nazionale come locale; soprattutto il pericolo di un misconoscimento delle idealità basagliane; e ancora il pericolo dell’inaridimento delle buone pratiche improntate allo sviluppo di socialità, di possibilità di condivisione allargata a una collettività, di preclusioni della libertà individuale e comunitaria.
Tutto ciò ha costituito per anni il perno del lavoro di tutti gli operatori, così a Trieste come in numerose altre esperienze italiane ispirate all’azzurrità di Marco Cavallo.
Personalmente posso testimoniare che la sola terapia farmacologica non è sufficiente a ridare pieno equilibro psico-fisico. Io sono stata salvata da uno stato di pesante isolamento, di grave involuzione sociale, di fobia, che mi impediva di camminare per strada, di guardare in viso un’altra persona, e mi costringeva a negare il prossimo, frustrata e incattivita, perché fortemente sofferente.
Proprio dal lavoro di gruppo, dalle discussioni e dal confronto intrecciati tra persone con esperienza all’interno di assemblee, agorà, riunioni; all’interno di Associazioni collegate al Dipartimento di salute mentale di Trieste; e ancora in socialità liberate e stimolate da viaggi, vacanze, partecipazioni a convegni, uscite cittadine, è iniziata per me una forma di liberazione dalla paura, dalle paure, che per quanto lenta e graduale nel tempo, mi ha portato a vivere una condizione più accettabile e più serena di vita.
Per molte persone con esperienza la possibilità di uscire liberamente dalle proprie case, la fruizione di spazi e momenti di socialità sono fondamentali, per loro stesse e anche per i vissuti dei familiari, che soffrono assieme ai propri cari isolati, in cattività.
Queste brevi, balbettanti parole, nascondono una denuncia forte: perché vivo la tragedia del coronavirus come medium per far passare una politica di indebolimento, di indietreggiamento delle linee terapeutiche insegnate da Franco Basaglia.
La burocrazia uccide gli ideali basagliani
3.
Ma bisogna ancora, a mio avviso, denunciare un’altra forma, subdola, di attacco al sistema salute mentale improntato agli ideali basagliani: quello della burocrazia, che impedisce, scoraggia, stanca. E alla fine allontana anche le persone di buona volontà, i volontari, che non sono disposti a spendere il loro tempo in mere pratiche di conteggi e rendiconti finanziari e burocratici, a scapito della cura dei bisogni reali delle persone.
Recentemente, prima del problema del coronavirus, ho partecipato a varie riunioni organizzate dai rappresentanti delle associazioni triestine legate al Dipartimento di salute mentale e all’Azienda Sanitaria giuliana da una convenzione.
Ecco anche la associazione Luna e l’Altra, cui afferisco, è fortemente messa in crisi dalle difficoltà di rendicontazione, dai cavilli burocratici, da inutili operazioni pesanti di conteggio e di sostenibilità finanziaria, tanto che alcune donne volontarie che operano attivamente all’interno dell’associazione sono tentate, o hanno già deciso, di buttare la spugna. Il peso dei regolamenti regionali imposti è, per loro, insostenibile.
Personalmente sono contraria a questa linea di negazione totale, ma capisco che il lavoro delle persone volontarie non può essere assorbito totalmente da mere pratiche di tesoreria. Bisogna individuare un soggetto operativo unicamente nel settore finanziario, che però le associazioni convenzionate non possono pagare, anche se costituisce un vero e proprio ambito di lavoro, diverso ad esempio dal supporto alla pari o dall’organizzazione della vita e degli eventi collettivi associazionistici.
Così anche l’impossibilità di sostenere economicamente il processo di emancipazione e di rafforzamento verso l’autonomia di donne in cammino verso forme di liberazione, di impegno, di accudimento all’interno dell’associazione rende molto scoraggiante proseguire l’attività in un settore così delicato come lo sono la salute mentale e il benessere fisico e psichico.
Silva Bon, associazione Luna e l’Altra
fonte: Forum Salute Mentale