La proposta di Psichiatria Democratica per affrontare la crisi del Covid-19
(Tavolo della Salute Mentale presso il Ministero della Salute)
Abbiamo apprezzato i contributi fin qui pervenuti al Tavolo che rappresentano proposte organizzative intese a omogeneizzare e unificare le azioni da intraprendere e le misure da adottare in questo frangente. Essi andranno in qualche modo unificati così che il prodotto finale promosso dal Tavolo stesso sia unico, espressione della posizione del Ministero a livello nazionale per quanto riguarda l’interfaccia tra servizi di Salute Mentale, utenza e cittadini.
A nome della Società Italiana di Psichiatria Democratica riteniamo utile proporre un’integrazione a quanto fin qui proposto che attenga non solo alle misure di profilassi e di prevenzione del contagio nell’espletamento delle attività ordinarie dei DSM ma riportino in primo piano il lavoro di Salute Mentale come lavoro territoriale, di comunità, proprio nel momento in cui ad essere intaccata è proprio la dimensione comunitaria. I circa 900.00 pazienti dei servizi di Salute Mentale, i loro familiari, i cittadini in difficoltà non possono essere trascurati in una situazione di generale precarietà assicurando solo l’indispensabile ma necessitano un impegno straordinario, ovvero di adeguamento delle pratiche di psichiatria di comunità all’inedita situazione creatasi nel corso della pandemia da COVID-19. L’importanza di raccomandazioni e linee guida, la necessità di monitoraggio dei flussi operativi nel rispetto delle modalità correnti di registrazione delle attività non può andare a scapito della natura relazionale del lavoro di salute mentale così come è disegnato dalla legge in vigore, la 180, e come strutturatosi nei decenni attraverso pratiche di inclusione e di promozione della salute mentale. Su questo piano si misura la forza di un sistema e la qualità di migliaia di professionisti, medici, psicologi, assistenti sociali, infermieri, tecnici della riabilitazione, operatori di cooperative sociali di gruppo A e B, che si misurano quotidianamente con la sofferenza mentale puntando sulle risorse delle persone e non solo sulle loro limitazioni, sulla valorizzazione delle soggettività mortificate, sulla capacità di rimanere, ancorché malati, parte di una rete sociale di appartenenze e di inserimenti lavorativi e socializzanti.
Si rendono necessarie misure organizzative al passo coi tempi del Corona virus, non solo per evitare la diffusione della pandemia e per proteggere gli operatori esposti al contagio, ma per mantenere fermi i princìpi che hanno contrassegnato in senso bio, psico, sociale la psichiatria italiana. Valorizzando quel sociale mortificato da scelte di politica sanitaria spesso errate e penalizzato dall’isolamento forzato resosi necessario per l’emergenza sanitaria in corso.
Di seguito troverete una riflessione generale e alcune semplici proposte organizzative.
Ordinario e straordinario nella salute mentale all’epoca del COVID-19
L’emergenza globale scatenata dalla pandemia da Covid-19 sta mettendo a dura prova il Sistema Sanitario Nazionale. L’impegno, fino allo spasimo, di tutto il personale fornisce conferma quotidiana di un patrimonio nazionale fin qui non valorizzato e, in molti casi, deliberatamente penalizzato. Ora è chiaro a tutti che, nella generale incertezza, la tenuta del sistema sanitario rappresenta un punto di riferimento irrinunciabile. Di Corona virus si può morire e, purtroppo, sono in molti quelli che, infettati, non ce l’hanno fatta, tra loro tanti medici e operatori di sanità. A loro va la riconoscenza di Psichiatria Democratica, insieme alla solidarietà per tutti i colleghi che combattono in prima fila giornalmente per la salute degli italiani.
In tempo di crisi, come questa straordinaria che stiamo attraversando, è inevitabile che affiorino i problemi preesistenti, che emergano carenze non sono solo organizzative ma strutturali, frutto di scelte sbagliate che mettono a repentaglio la tenuta e l’efficacia del SSN e la sua capacità, o meno, di assicurare la salute dei cittadini. Il primo errore, purtroppo non casuale, è stato quello di smentire nei fatti la natura stessa di un sistema sanitario fondato sulla continuità ospedale/territorio. Non è fuori luogo parlare di territorio in questi frangenti in cui il lavoro ospedaliero nei reparti di terapia intensiva (per atroce paradosso penalizzato anch’esso da tagli di risorse e personale) è decisivo per la sopravvivenza dei malati. E’ proprio questo il punto: chiunque abbia sin qui difeso le ragioni del territorio è stato trattato da ostinato, ideologico o da idealista in quanto disposto a sottrarre forze e finanziamenti all’ospedale, luogo certo di cure, per assegnarli a un territorio che, tuttalpiù, può essere filtro, erogatore di assistenza, supporto sociale. Ora nell’incombente minaccia di morte da Covid-19 dobbiamo ricordare che lo smantellamento dei presidi territoriali di prevenzione e cura ha portato al sovraccarico letale degli ospedali, ha impedito una gestione capillare ed efficiente delle persone positive o sintomatiche non critiche (la maggior parte dei contagiati), ha intaccato la possibilità di un monitoraggio reale dei casi positivi, unica soluzione efficace al propagarsi dell’epidemia. Ci siamo assicurati il primato di longevità per la nostra popolazione ed ora non siamo in grado di mantenere la promessa di sopravvivenza ai nostri vecchi sottoposti allo stress del virus. Abbiamo argomenti e azioni da opporre a questo non ineluttabile destino?
C’è poi lo specifico della psichiatria e del sistema salute mentale, quello in cui Psichiatria Democratica è impegnata in prima fila da decenni. La psichiatria è stata qualche volta chiamata in causa in questi giorni di paura e angoscia per spiegare, rassicurare, offrire sostegno a chi è affetto, ai familiari, agli operatori. Non va dimenticato, tuttavia, che l’assistenza psichiatrica nel nostro paese è garantita da dipartimenti integrati a cui fanno capo sia i reparti ospedalieri che i servizi territoriali, primo esempio di impostazione sistemica di un approccio alla salute che ha poi ispirato tutta la riforma sanitaria. La dismissione silente e progressiva della rete psichiatrica territoriale si è accompagnata, anche in questo caso, alla centralità dell’ospedale e delle cure ospedaliere che vuol dire, essenzialmente, somministrazione di farmaci e gestione del paziente acuto attraverso la sedazione e, purtroppo, la contenzione. Al territorio è stato riservato un ruolo ancillare, oscillante tra la proposta di interventi mirati specialistici, magari psicoterapici, il tecnicismo di cure validate e rispettose delle linee guida e l’assistenza caritatevole, umanitaria dei pazienti gravi. In epoca di Corona virus questa impostazione si è tradotta nella sospensione di attività ritenute non primarie oltre che rischiose per l’eccessivo contatto tra pazienti e operatori: in molti casi i Centri Diurni sono stati chiusi, le attività sociali interrotte, quelle lavorative fermate o vincolate al funambolico esercizio di farle passare per terapie indispensabili al fine di non incorrere nelle peraltro legittime sanzioni comminate a chi non rispetta i vari DPCM emanati negli ultimi giorni. Sono state incoraggiate le visite al domicilio, le passeggiate di ‘sollievo’ a due, paziente e operatore (vedi ordinanza della Regione Campania del 13/3/20 e il comunicato dell’unità di crisi Covid-19 della stessa che lo integra), o, come nel caso del Lazio, le attività legate alla salute mentale (specificazioni relativi al terzo settore dell’ordinanza regionale Z00013 del 20/3/2020) fatte rientrare tra quelle del volontariato, intrise della retorica del “non lasceremo indietro nessuno”. In altri termini una posizione culturale, scientifica, di salute mentale pubblica perde la sua specificità e viene assimilata a pratiche di supporto aspecifico, esercizio di un’azione umanitaria e non di un trattamento elettivo, epistemologicamente fondato nel lavoro di salute mentale con i pazienti gravi.
Potrebbe parere inappropriato e marginale parlare di pazienti psichiatrici e di servizi di salute mentale in un momento in cui l’emergenza sanitaria vede al centro i reparti di terapia intensiva e la loro saturazione, la carenza di medici e le vite in pericolo degli operatori sanitari. Così non è tuttavia. L’emergenza sanitaria non si ferma alle situazioni critiche da complicanze di Corona virus: altre emergenze riguardano condizioni mediche acute che rischiano di essere trascurate (i numeri parlano di pazienti cardiologici con infarto in diminuzione presso i Pronti Soccorso), o croniche, malattie che necessitano di assistenza continuativa. E i disturbi psichiatrici, aggiungiamo. Non si muore di psicosi, benché i dati parlino di aspettativa di vita inferiore di più di dieci anni rispetto alla media per i pazienti che ne sono affetti. In questo caso sono gli stili di vita e l’effetto a lunga durata delle terapie farmacologiche i fattori di rischio in gioco. Cosa succede in tempi di Corona ai pazienti dei servizi psichiatrici? Gli SPDC ospedalieri sono soggetti come tutti gli altri reparti al contagio; i CSM lavorano, al minimo, nel rispetto delle norme di prevenzione, quasi dovunque applicate; i Centri Diurni per la maggior parte chiusi. E’ legittimo pensare che le emergenze psichiatriche siano solo quelle che comportano rischio di vita (suicidio) o comportamenti aggressivi? Se non è così, e lo sappiamo, cosa è possibile fare e suggerire agli operatori, ai pazienti e alle loro famiglie? Se un paziente vive solo o in una famiglia in cui la convivenza è fonte di tensione, di sofferenza, di trasformazione dell’angoscia che ne deriva in sintomi gravi? Se i deliri, le ossessività, i rituali aumentano a dismisura e i supporti clinici vengono meno? Se viene meno l’impegno lavorativo, che permette a molti di essere inclusi in attività che assicurano senso e reddito? Se, i contatti telefonici non sono sufficienti (e in molti casi lo sono se continuativi) ma vengono bloccati in quanto, i collegamenti in videochiamata o le applicazioni tipo Skype, Meet, Webex o Zoom, sono considerate “una modalità di prendersi cura” che, in quanto intervento a distanza, “non può essere considerato una prestazione sanitaria di cura” (DSM Napoli, 19/3/2020)? Ancora una volta, e l’emergenza come dicevamo non fa che svelare un re nudo, si rimanda alla volontà, buona o cattiva, degli operatori la qualità e l’efficacia di azioni terapeutiche, cioè in grado di modificare positivamente una condizione di sofferenza. Magari portando i propri computer da casa e utilizzando i propri provider internet non potendo essere utilizzate le reti aziendali. Nei giorni delle mascherine e dei disinfettanti i DSM dovrebbero produrre qualcosa di più che diramare le misure igieniche e preventive disposte dal Ministero della Sanità, dall’ISS, dalle singole Regioni. E’ lecito chiedere che, oltre che provvedere perché gli operatori siano dotti di presìdi di profilassi adeguati, sia salvaguardato il senso stesso di avere costruito una rete di servizi diffusi sui territori per rispondere a quello specifico tipo di sofferenza che è la sofferenza mentale e relazionale dei pazienti e delle loro famiglie. E’ legittimo pretendere che, proprio in un momento come questo, non si ceda all’indifferenza burocratizzata cercando di far rientrare le pratiche emergenziali nella stretta cruna dei criteri di computazione prestazionale aziendale. E’ obbligatorio riflettere sulle pratiche ordinarie per far sì che anche in tempi straordinari vengano salvaguardati i princìpi, la qualità e l’efficacia di pratiche di salute mentale che partono dalla relazione interpersonale e arrivano alla cura. E’ giusto che un patrimonio di esperienze di salute non continui ad essere mortificato come supporto e conforto generico, ma restituito alla dimensione scientifica e culturale da cui proviene e che negli anni ha arricchito e innovato.
Alla legittima domanda “Come si fa?” proviamo a rispondere con alcune semplici proposte derivate da una prima indagine da noi effettuata sulle modalità di funzionamento di alcuni servizi di salute mentale italiani:
a) dare chiare indicazioni ai DSM di attivare i canali di comunicazione digitale utilizzando le proprie reti LAN. ( in alcuni casi prevale una attitudine istituzionale al controllo dei comportamenti degli operatori ponendo vincoli all’accesso di internet o di alcune applicazioni);
b) riconoscere i contatti che avvengono per questa via remota come modalità ‘appropriate’ di curare la presa in carico.(non diversamente da quanto avviene tutti i giorni al telefono in tutti i CSM d’Italia in cui gli operatori trascorrono una certa parte del loro tempo al telefono – magari sentendosi dequalificati per la loro professionalità che ritengono menomata. Spesso si tratta di lavoro affidato agli infermieri che si sentono impiegati in attività aspecifiche a tutto vantaggio di quelle specifiche praticate dalle altre professioni e, oltretutto, non valorizzate in termini prestazionali nell’ambito dei flussi operativi); c) tenere aperti i servizi e i centri diurni (con tutte le misure precauzionali obbligatorie) come luoghi di accoglienza e non solo come erogatori di prestazioni mediche e specialistiche o visite domiciliari. (l’apertura al pubblico, pur regolamentata, ha un valore di disponibilità pratica e simbolica che fornirebbe una rassicurazione all’utenza più esposta);
d) supportare il personale, integrandolo anche in vista del dopo Corona che sarà un problema da gestire non da poco per tutti. Questo comporta anche non rimandare la soluzione del generale problema della carenza di personale.(l’esposizione degli operatori agli stessi timori e pericoli a cui è soggetta tutta la popolazione va considerata una dimensione esperienziale che è indispensabile valorizzare. Operatori rispettati ed ascoltati, non lasciati a se stessi, saranno preziose risorse nel dopo Corona, quando ci troveremo a fronteggiare le conseguenze sui pazienti in carico, su quelli che verranno e sulla popolazione che sconterà gli esiti di quanto sta avvenendo, onorando il principio dell’accesso alle cure di un sistema diffuso di salute mentale sul territorio nazionale);
e) riconoscere pienamente il lavoro delle cooperative integrate, sia di tipo A che B impegnate all’interno dei DSM come parte dei processi di cura che, in fasi come questa, possano proseguire (nel rispetto delle le regole di prevenzione) per la salute dei pazienti. (il lavoro praticato da soci svantaggiati delle cooperative va considerato parte dei processi di recovery e di restituzione alla dimensione sociale e relazionale della loro vita. D’altra parte anche il supporto alla persona effettuato dalle cooperative A è parte di processi trasformativi e non di mera assistenza).
Ora più che mai va valorizzato tutto il lavoro apparentemente informale che sfugge alle linee guida e ai LEA, e che da sempre è ossatura relazionale e nutrimento per i pazienti e i familiari che gravitano intorno a quei servizi che non si limitano a fare ambulatorio (semi) specialistico. Basterebbe trovare una formula per riconoscere questo livello dell’operatività: sarebbe una boccata d’ossigeno per quegli operatori che sono costretti a farlo informalmente, magari vergognandosi, oltre che comportare beneficio per i pazienti e i loro familiari.
Antonello d’Elia e Salvatore Di Fede,
Presidente e Segretario di Psichiatria Democratica