Un’urgenza lunga dieci giorni (Covid19 cronache di resistenza n. 2)

Un’urgenza lunga dieci giorni

“Per più di dieci giorni l’angoscia di Francesca (nome di fantasia) e dei suoi familiari l’abbiamo gestita noi dell’associazione, suo fratello ci chiamava giorno e notte, all’inizio le cose non erano così drammatiche, se il centro di salute mentale (Csm) fosse intervenuto quando è stato allertato si sarebbe potuta evitare tanta angoscia, e anche il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) che alla fine Francesca ha dovuto subire”. Gisella Trincas e le altre persone dell’Asarp, l’associazione sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica, sono abituate al lavoro di mediazione con utenti, famiglie e servizi di salute mentale: nella sua lunga vita l’Asarp, che ha trentaquattro anni di attività, ha attraversato la stagione difficilissima dell’immediato dopo riforma, poi, con il crescere dei servizi e dei loro mezzi, la speranza di una politica di salute mentale degna di questo nome ma, negli ultimi anni, di nuovo il degrado, con servizi sempre più poveri di mezzi, accorpati e riorganizzati secondo logiche burocratiche ed economicistiche. Così l’emergenza coronavirus sta portando alla catastrofe il sistema della salute mentale in gran parte della Sardegna.

Come in altre regioni dove il Covid19 è arrivato in ritardo e che avrebbero dovuto e potuto prepararsi, anche in Sardegna gran parte del personale si è trovato privo dei dispositivi di protezione individuale, con l’evidente rischio per la loro sicurezza e per quella degli utenti, e lo scorso 6 marzo il direttore sanitario dell’Azienda per la tutela della salute (ATS-Sardegna) ha disposto che venissero sospese tutte le attività ambulatoriali e garantite le sole urgenze/emergenze. Ma con quali parametri si definisce una urgenza/emergenza? Se il dipartimento di salute mentale (Dsm) taglia seccamente il personale disponendo che vi debbano essere nei diversi turni uno/due medici e due/tre infermieri, sta dicendo, di fatto, che l’urgenza è definita dalla possibilità del personale di rispondere alla domanda e non dalle caratteristiche della domanda stessa, con conseguenze che possono essere anche drammatiche. La storia di Francesca è esemplare.

Il contesto è una famiglia numerosa, con una storia di grande sofferenza e a modo suo coesa, che vive in un piccolo paese non lontano da Cagliari ed è conosciuta dai servizi di salute mentale: le due figlie che hanno vissuto i disagi più pesanti sono da tempo ricoverate, una in una grande struttura gestita da religiose l’altra in una casa famiglia, la terza, Francesca, è in fondo quella che è sempre stata meglio, una ventina d’anni fa ha avuto un brutto episodio di scompenso e da allora prende pochi farmaci seguita dal centro di salute mentale. Da quando la madre è morta vive con il padre, lavora saltuariamente, guida la macchina, va a trovare le sorelle spesso e con regolarità, ha un buon rapporto con i fratelli che abitano a poca distanza. Quando la pandemia arriva in Sardegna questo equilibrio si rompe. Le due istituzioni dove vivono le sorelle di Francesca impediscono l’ingresso ai parenti secondo disposizioni regionali e governative (che i vari istituti non interpretano allo stesso modo e che non hanno impedito la formazione di focolai in alcune case di riposo). Francesca si preoccupa molto per le sorelle, una di loro non può essere raggiunta neppure col cellulare, quindi Francesca, che ha provato ad avvicinarsi all’istituto ma è stata immediatamente allontanata dalla suora, comincia a pensare che le sorelle stiano male, e poi che stia male anche suo padre, che un giorno va alla Posta ma non rientra subito, o almeno così sembra a Francesca che si agita, va a prenderlo in macchina ma arrivati a casa non vuole farlo scendere convinta che lui sia stato contagiato, e solo l’arrivo di uno dei fratelli riesce a far tornare la calma. Ma è una tregua temporanea, Francesca non mangia più e una notte, alle tre, esce di casa urlando il nome di uno dei fratelli che non rispondeva al telefono, e che dunque stava male. A quel punto l’associazione, che era stata già coinvolta nel malessere di Francesca, suggerisce che è tempo di chiamare il Csm. Iniziano così dieci giorni estenuanti. Il Csm non risponde al telefono, occorre chiamare più volte a tutte le ore per ricevere risposta, e quando finalmente il fratello di Francesca riesce a intercettare un operatore si sente rispondere, per tre volte, che deve far prendere a Francesca i soliti farmaci, anche se è evidente che non la aiutano più. Un giorno finalmente riesce a parlare con la psichiatra di guardia, che però non prevede una visita domiciliare. Dal venerdì pomeriggio fino al lunedì successivo il Csm è chiuso. Domenica Francesca sta sempre peggio, a questo punto viene chiamata la Guardia Medica che suggerisce di chiamare il 118, che arriva ma non c’è un medico e così si rinvia al lunedì, quando arrivano da Francesca il medico di base e il sindaco, si pensa di disporre un Tso ma non c’è uno psichiatra, il medico di base rassicura i familiari e si rinvia al giorno dopo quando arriva la psichiatra dal Csm che chiarisce la difficoltà del servizio dove erano in turno solo due medici. Siamo al decimo giorno di questa crisi annunciata, Francesca ha paura, si agita, non vuole andare in ospedale e così deve subire una sedazione farmacologica pesante per poter essere trasferita al servizio di diagnosi e cura (Spdc).

Non era inevitabile. Alcune regioni (il Lazio ad esempio) hanno ordinato alle strutture che erogano prestazioni sanitarie e socio-sanitarie di proseguire la loro attività, ovviamente nel rispetto delle misure di contenimento del rischio disposte a livello nazionale, “al fine di garantire ai pazienti la continuità dell’assistenza” (ordinanza del presidente della Regione Lazio del 6.3.2020, punto 19). Per fare un altro esempio, la direzione del Dsm di Siracusa ha ritenuto di dover ricordare agli operatori, e alle autorità regionali che hanno disposto la sospensione delle attività ambulatoriali “differibili”, che in salute mentale sospendere le prestazioni ambulatoriali può comportare scompensi che possono poi richiedere ricoveri e anche Tso, e che dunque la valutazione della urgenza/differibilità  deve tener conto del fatto che resta in vigore, pure in questa situazione di emergenza, la responsabilità soggettiva del sanitario rispetto all’abbandono di incapace e all’interruzione di pubblico servizio.

Se c’è una morale in questa storia di Cagliari è che le autorità che chiudono tutto davanti all’emergenza si dimostrano in realtà incapaci di governarla, esponenti di una cultura politica dell’irresponsabilità che sposta sempre il problema, o la colpa, su altri, che stanno più in alto e soprattutto più in basso.

Maria G. Giannichedda

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