Dopo la sentenza del 25 settembre 2019 della Corte Costituzionale si è aperto un significativo dibattito sul “suicidio assistito”. Due piani, quello legale e quello clinico che dovrebbero trovare un punto di incontro e sintesi.
Questo può avvenire solo a partire dalle pratiche, dalla centralità della relazione di cura e non all’esterno di essa secondo quanto previsto dalla legge 219/2017. La qualità della cura non è legata solo alle necessarie competenze specialistiche ma anche a quelle relazionali. Quella capacità creare fiducia, di dare ascolto e di entrare nel mondo interno dell’altra persona di coglierne i vissuti, di comprendere il dolore, la sofferenza rispetto alla vita di cui è sempre parte la morte. Una presenza che si organizza gradualmente, a partire dall’infanzia, prima come quella dell’altro, poi come limite, sfida, successivamente come timore, auspicata soluzione, lontana aspettativa, prossima presenza, attesa, inevitabile destino comune ma di solito individuale.
La morte accompagna la vita, è sempre nel fondo della mente mentre è socialmente quasi scomparsa. Infatti, negli ultimi decenni se ne parla sempre meno, viene rimossa e medicalizzata, non ritualizzata ma privatizzata e nascosta. La morte da fatto naturale a quasi “incidente o errore medico” e lo stesso lutto da normale fase psicologica viene sempre più connotato in modo patologico.
Non possiamo parlare del fine vita senza fare qualche considerazione più ampia, non certo per eludere il tema in sé ma per inquadrarlo correttamente. Se la qualità della vita può essere compromessa da patologie ingravescenti e compromettenti il funzionamento, tanto da ridurne le aspettative di durata, ben più difficile è comprendere come la vita stessa possa essere minacciata, resa un’insopportabile sofferenza per fattori psicologici e sociali, per il peso dei determinanti sociali di salute. Una questione che pone al medico, allo psichiatra, di fronte al suicidio, al rischio di suicidio, il confronto non con una condizione solo biologica ma con fattori psicologici e sociali, che reciprocamente si influenzano e possono portare a quel “dolore mentale insopportabile”, a quella totale perdita di speranza che vede nel suicidio l’unica soluzione.
Allora la relazione di cura si confronta con l’unicità di quella situazione e al contempo con la complessità del modello biopsicosociale, con i determinanti sociali della salute, con il tema dei diritti.
I Diritti umani fondamentali, alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione e diritti sociali all’educazione, istruzione, al lavoro, al reddito, alla casa, con i quali la salute è strettamente correlata. Viene da chiedersi: come vi può essere il diritto alla salute al di fuori di un sistema universalistico? Certamente può esistere di principio ma poi il suo esercizio quale può essere se manca un’effettiva possibilità o se l’accesso alle prestazioni sanitarie è fortemente limitato o impedito dal reddito?
Lo stesso si può dire di fronte all’autodeterminazione che certamente va riconosciuta come condizione della persona in relazione alle sue convinzioni ma che per esercitarsi deve confrontarsi con la effettiva presenza di alternative, per la vita o la sua fine. Avere condizionato i diritti sociali alla compatibilità economica, per altro inserendolo in Costituzione, rappresenta un punto assai critico.
I diritti sociali vanno ricollocati nell’ambito dello spirito originario della Costituzione e in tale luce, diviene facile constatare come molto si potrebbe fare e con relativa facilità per affrontare i tanti tipi di povertà, le solitudini, l’isolamento e le disperazioni. E non solo sul piano strettamente psichiatrico. A volte basterebbe molto poco, un corso, un lavoro, un alloggio, un’opportunità…
Le “vite di scarto” non rischiano di essere quelle terminali, o gravemente compromesse sul piano del funzionamento, ma tutte quelle non funzionali o necessarie al sistema economico-sociale delle società industriali avanzate.
Non c’è salute senza salute mentale, non c’è salute senza diritti. Questo va realizzato con servizi pubblici universalistici che si prendano cura di tutti e per questo serve un grande rilancio dell’azione politica riscrivendo le priorità e rivedendo le correlazioni tra le politiche, il rapporto uomo-ambiente, il modello di sviluppo. Ma anche un rapporto con l’esistenza, il suo senso che le giovani generazioni in cerca di un futuro loro sottratto, pongono con forza. Temi ai quali occorre dare, insieme a loro, risposte concrete, possibili come fanno ogni giorno tantissimi operatori dei servizi. Non vi sono “vite indegne di essere vissute”, grande è il coraggio di vivere anche nelle difficoltà estreme, vite appoggiate sulla presenza dell’altro e non sull’abbandono. Quindi più diritti individuali all’interno di un patto sociale.
Se oggi parliamo di diritti nuovi, alla speranza, all’amorevolezza (Livia Turco[1]) questi devono essere appoggiati sulla presenza dell’altro, quindi sono individuali e relazionali, e sono legati in modo inscindibile ai diritti fondamentali e sociali non solo sulla carta ma sulla loro effettiva esigibilità sulla base di un patto sociale condiviso e precisi reciproci doveri.
Nel nostro contesto i diritti sono un insieme unitario o rischiano di non essere. Non solo diritti individuali. Con questi la medicina deve riprendere un confronto, con la sua matrice sociale e la comunità di riferimento. Questa è la cornice anche per il suicidio assistito, il fine vita, in quella pianificazione condivisa delle cure (e non delle cure condivise) che preveda quindi il dissenso e il rifiuto.
Ho l’impressione che la perdita di questa vicinanza al mondo reale non sia solo della politica e del diritto che ha comunque il merito di avere deciso ma anche di parte della medicina.
Non voglio esprimermi sui disegni di legge giacenti in parlamento. Nella pratica constato che la legge 219/2017 deve essere ancora applicata e tuttavia il percorso tracciato può essere migliorato, mediante garanzie, un secondo e terzo parere medico e l’intervento giudice tutelare, procedure per il distacco di macchinari (sulla falsariga ad esempio di leggi sull’espianto di organi) o somministrazione di determinati farmaci ma senza altri impegnativi adempimenti burocratici (il richiamo a Comitati etici ecc.).
Come medici non ci possiamo chiamare fuori da un problema, quotidianamente presente, nella pratica clinica dove la saggezza delle pratiche, l’umana partecipazione dei professionisti sono presenti e fanno la qualità del lavoro e delle più delicate esperienze di vita. Ed in queste che possono maturare le decisioni della fine della vita, nel sottile e talora impalpabile rapporto tra programma di cura e progetto di vita, dopo avere fatto tutto quanto umanamente e scientificamente possibile ed accettabile dalla persona, all’interno di relazioni che sostengono e accompagnano il paziente e suoi cari, nel rispetto delle estreme decisioni della persona sulla propria vita, senza mai dimenticare che persona e vita coincidono.
[1] Turco Livia Fine vita e diritto all’amorevolezza, Quotidiano Sanità 1 ottobre 2019. https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=77368
Pietro Pellegrini è Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma.
fonte: SOS Sanità