Franco Basaglia. Utopia e dimenticanza. di Antonello D’Elia

Utopia è un termine caro a Franco Basaglia, non solo in quanto compare nel titolo di uno dei suoi saggi più ricchi e complessi, ma perché ricorre molte  volte, e con diverse tonalità nel corso del lungo processo che ha preceduto e seguito la riscrittura per legge dei rapporti tra lo Stato italiano e la Follia.

In questo anno di ricordo della sua nascita non mancano celebrazioni in cui emergono sia esigenze di rilancio del sistema di salute mentale derivato da quella legge, in drammatico affanno negli ultimi anni, sia riferimenti generici al suo ruolo di psichiatra riformista che, oltre a rischiarne la monumentalizzazione inerte, tacciono sui decenni complessi e creativi di pratiche ed elaborazioni che sono seguiti alla sua morte avvenuta alla fine di agosto del 1980.

È anche per questo che proverò ad abbinare Utopia e Dimenticanza, dimensioni opposte che si misurano con il futuro ed il passato con modalità che, nel discorso pubblico, finiscono per essere confusive. Il tempo congelato è la migliore garanzia per relegare nella retorica, quale che ne sia la matrice, fatti, passioni, scelte compiute o mancate, e per soffocare quella stessa capacità critica che rappresenta uno dei lasciti più fecondi del pensiero e delle opere basagliane. Non mancano esempi di tali rischi nella messe di libri, convegni, iniziative che costellano questo anno di anniversari.

Partirei dunque dalla dimenticanza. Cosa abbiamo dimenticato?

L’Utopia mette in contatto con un Altrove, un “senza luogo” dove il pensiero e le aspirazioni trovano realizzazione. Ebbene, quell’Altrove, per un lungo periodo siano stati Noi ad incarnarlo, a dargli consistenza, a farlo diventare utopia concreta. La stagione che è seguita alla legge è stata anche questo, e noi stessi lo abbiamo dimenticato, affidando a un oblio sociale pratiche di salute mentale diffuse, pubbliche, gratuite, di contrasto alla sofferenza e di alternativa alla segregazione manicomiale.

A questa dimensione collettiva, ne affiancherei anche un’altra, quella di un oblio individuale. Le scelte fatte da ciascuno a suo tempo verso un ambito così speciale come quello delle professioni di aiuto hanno avuto motivazioni profonde, personali, familiari, storiche. Se dimentichiamo quel senso di riparazione che ci ha portato sulla strada della psichiatria, della psicologia, della psicoterapia, del lavoro infermieristico e sociale con la sofferenza mentale e con i danni che un sistema che trattiene ma non cura, che cosa rimane di noi, della nostra soggettività?

Forse solo la paura dell’ignoto, l’inquietudine perturbata, il bisogno di rassicurazioni: si spegne la curiosità, si affievolisce il senso critico, prevale una visione letterale e tecnicistica per sottrarsi a se stessi. Si può lavorare con la sofferenza umana senza avere un altrove di riferimento? Solo temendola e temendo l’altro? Senza riflettere sulle nostre difese, legittime, umane, ma che non possono diventare l’edificio su cui costruire una disciplina di cura dell’uomo? La mia risposta è senza dubbi “No”. Eppure è quanto avviene nella psichiatria difensiva e protocollare, nella modesta gabbia delle diagnosi o delle contenzioni, nella riproposizione di una disciplina che, nel vantare ascendenti scientifici, dimentica la dimensione, drammaticamente umana, del suo fine.

Il discorso sulla professionalizzazione e deprofessionalizzazione dei mestieri della salute mentale rimanda ad antichi dibattiti e confronti, anche questi, purtroppo, sfumati nella dimenticanza (Galli, 1986). Gli scritti di Basaglia, di Robert Castel (1979), di Agostino Pirella (1984) sono ricchi di spunti e di analisi del rischio che una società psichiatrica avanzata proponesse “ideologie di ricambio”, tecnicizzazioni diffuse mirate, nei fatti, a una nuova inclusione istituzionale, alla creazione e al trattamento, di nuove forme di diversità sociale e individuale soggette a inedite categorizzazioni. Ma non sono meno stimolanti le riflessioni sulla funzione psicoterapica nei servizi, appannaggio non solo delle figure professionali del medico e dello psicologo ma prodotto del lavoro di un’équipe, di un gruppo pluriprofessionale inserito in un sistema di cure pubbliche, interprete della territorializzazione dei servizi di salute mentale e della socializzazione delle pratiche di contrasto alla sofferenza e della prevenzione dei suoi esiti più devastanti. Quel ricco patrimonio sembra aver ceduto, prima lentamente, poi in maniera sempre più vorticosa, ai cambiamenti di gestione della sanità, alla sua dimensione economico-aziendale, del tutto staccata dalle pratiche di cura, se non per un aggiornamento ideologico reso invisibile dalla ragione quantitativa. Anche qui l’oblio ha giocato un ruolo decisivo.

Aggiungerei una notazione di sistema, forse impopolare per qualcuno, che riguarda i professionisti laureati della salute mentale: è legittimo che, per praticare quella che è una delle professioni di aiuto più difficili immaginabili, le giovani leve della psichiatria vengano lasciate a se stesse, dando loro, ipocritamente, un titolo d’ufficio, quello di psicoterapeuti, e non pretendendo, per la loro salute prima di tutto, che si formino adeguatamente per quel che andranno a esercitare? Senza trasmettere loro il senso di problemi che hanno a che fare con l’etica, con le emozioni più profonde, con la consapevolezza di sé e la inevitabilità del doversi confrontare con la vita, la morte, la follia come possibilità umane? Questo è quel che ha prodotto la legge del 1989 che ha regolamentato l’esercizio della professione psicoterapica in Italia il cui risultato, esito di contrattazioni corporative, ha: a) conferito ope lege il titolo di psicoterapeuti ai laureati in medicina specializzati in psichiatria e neuropsichiatria infantile; b) costretto gli psicologi, in assenza di un impegno statale a riguardo, a frequentare corsi privati di specializzazione riconosciuti dal Ministero (ora MIUR) pena la loro esclusione dalle assunzioni nel Servizio Sanitario Nazionale; c) di fatto privato quest’ultimo di professionisti formati in grado di confrontarsi con un’attrezzatura esperienziale e non solo scolastica con persone, famiglie e comunità sofferenti. Non era un’epoca d’oro quella precedente, lo riconosco, né la formazione era sempre garanzia di competenza assoluta, ma gli esiti di quell’impoverimento sono evidenti e si sono manifestati nei due decenni successivi. E ancora li scontiamo, insieme ad altri drammatici problemi accumulatisi nel tempo, primo di tutti la carenza di personale nei servizi. Quasi inutile chiamare in gioco, ancora una volta, la dimenticanza.

Eravamo partiti dall’Utopia e vorrei tornarci.

Ecco cosa ne scrive Italo Calvino nel 1974 (Calvino, 1974). In premessa, nota che quando in una società c’è stato un tentativo di migliorare le condizioni generali, “di mettere in pratica un’idea di una società meno mostruosa” (Calvino, 1974, p. 4) ed alla fine, con la forza, questo tentativo è stato soppresso, si dice che è finita un’utopia. Eravamo, va ricordato, all’indomani del crollo violento della democrazia cilena, della morte di Allende e dell’inizio della dittatura di Pinochet.  Alle utopie, letterarie o filosofiche, scrive,

«…è estraneo il carattere di rischio, di scommessa, d’appeso a un filo, di trovarsi ogni giorno alle prese con un problema inaspettato, tutto ciò che fa il pathos delle rivoluzioni vissute giorno per giorno» (Calvino, Ibidem).

Mi pare la più efficace descrizione della sfida della psichiatria riformata in Italia, della fatica e dell’impegno di migliaia di operatori che hanno reso possibile una rivoluzione quotidiana, un modo non istituzionalizzato di misurarsi con le persone in sofferenza.  La nostra è stata un’ Utopia incarnata, vivente, non letteraria e teorica, ben diversa da quel mondo ideale, autosufficiente, senza tempo contrapposto nella sua autonomia ideale al mondo di cui vuole essere il correttivo.

Dice ancora Calvino che nessuno ha più in testa, al giorno d’oggi, di descrivere una società perfetta, ma che l’immaginazione politica ha sempre bisogno di un Altrove, geograficamente determinato: non si  tratta di utopia ma

«d’una carica utopica che deve continuamente fare i conti con nuovi dati… masticare informazioni che qualche volta le vanno per traverso.» (Calvino, Ibidem).

E anche in questo caso, quell’altrove ha avuto coordinate geografiche precise, quelle dell’unico luogo del mondo a cui far riferimento per rappresentare un posto libero dai manicomi.

Di fronte alla inaccettabilità del presente si registra più facilmente una spinta regressiva, verso un’età dell’oro e verso un fine, perché questo richiede sempre un forte investimento ideologico. Ma, aggiunge Calvino,

« (anche se) nessuno può credibilmente mettere in dubbio la superiorità del pensiero scientifico su quello utopico… la dimensione utopica rimane un principio decisivo perché serve ad alimentare la concentrazione del pensiero e della prassi sulla critica…» (Calvino, cit. p.5).

È forte la tentazione di contrapporre a quell’epoca ormai lontana di impegno e di desiderio di mutamenti la nostra, in cui generazioni cresciute in un tempo che ha bandito le utopie sostituendole con soluzioni rassegnate e di conforto individuale, di passioni tristi, come le chiama Benasayag citando Spinoza (Benasayag, 2004). Forse, se ci guardiamo intorno con occhio curioso, solo da poco l’utopia planetaria sta reimmettendo nell’immaginario collettivo e in particolare in quello giovanile un senso di futuro. Si tratta tuttavia di un futuro malinconico, sotto minaccia, offuscato dalla imminenza di una catastrofe negata da alcuni e strumentalizzata in senso produttivistico dall’altro. Ma forse è sul negativo che attecchiscono come spinta vivificante le utopie.

La scelta di concentrare l’attenzione sull’utopia nasce dal prendere atto che l’accusa di utopismo è stata tra le prime ad essere formulata dai critici della legge già all’indomani della sua approvazione. Un’accusa ‘benevola’ rispetto ad altre, ma pur sempre un modo di liquidare il cambiamento come impossibile e velleitario. Ben presto, e tuttora ne possiamo leggere i termini, quell’aggettivo è stato coniugato con quello di ‘ideologica’ per tacciarne la radicalità come figlia di un’epoca di dominio del ‘politico’ sullo ‘scientifico’, una riforma mirata a cambiare tutto senza alcun aggancio con la pratica.

Pare utile allora provare a chiarire quali sono i confini dell’utopia, per definizione un “nessun luogo”, difficile da cartografare. Ne viene fuori un provvisorio elenco di ambiti tacciati di utopici, ovvero ideali o non pertinenti lo specifico disciplinare. Eppure non pare certo ‘utopica’ la premessa che un professionista della salute mentale sia consapevole della complessità del suo incontro con l’altro, dello spazio che lo separa, unico luogo di un possibile contatto, l’intervallo, la necessaria distanza colmabile attraverso la relazione. “Incontro” e “intervallo” (Basaglia, 1954) non sono termini del linguaggio comune, ma appartengono a una tradizione filosofica di cui peraltro Basaglia è consapevole prosecutore e meritano maggior attenzione della inflazionata “empatia”, questa sì deformata dalla genericità della sua accezione corrente.

Come pure non è utopico l’ascolto della voce di chi soffre non soffocato dal pregiudizio, anche se setacciato attraverso categorie diagnostiche pretestuosamente ‘ateoretiche’. Siamo nell’ambito di pratiche e posizionamenti mirati alla soggettivazione dell’altro, alla sua individuazione e non alla sua oggettivazione in quanto corpo malato e portatore di sintomi. Non sembra certo utopico ricondurre questi ultimi al loro senso, a cogliere il loro potere e potenziale metaforico senza interrogarli e collocarli nello spazio culturale della comunicazione anziché in quello naturale di una naturalità inerte. O forse lo è tenere conto della storia della persona, dei contesti specifici, della Storia per situare sintomi e modalità di soffrire ed esistere? Perché le persone, gli uomini e le donne, non sono riconducibili alla loro sofferenza, la loro umanità si esplica in ambiti e mondi in cui affiorano risorse, abilità, capacità non scomparse dentro i possibili deficit.

E neppure ci sembra più utopico sostenere che in luoghi di abbandono e di violenza come i manicomi e alcuni opachi succedanei contemporanei, sia possibile una cura. Una cura, non un trattenimento o un trattamento focale fisico o farmacologico. Perché abbiamo consapevolezza che la malattia e la società non sono estranee a loro stesse, come si è appreso nel corso della recente pandemia, come pure che i rapporti di potere entrano nelle relazioni, sociali, personali, familiari e non tenerne conto ci impedisce sia di comprendere che di intervenire. E, per terminare questo catalogo delle non-utopie, non penso sia criticabile l’esercizio di un sapere critico e riflessivo che metta in discussione e interroghi categorie e saperi che applicati all’umano non sono neutrali ma produttivi, di azioni, di identità, di realtà.

Tutto quanto elencato non rientra nelle utopie ma tra gli elementi  fondamentali di una professione, aspetti irrinunciabili di una formazione e di una educazione al lavoro psichiatrico. Dovremo andare a cercare altrove le utopie vere, nel senso di quell’energia costantemente mirata a capire e a cambiare quello di cui si è insoddisfatti. Anche se ad essere state dimenticate sono state le vere e le finte utopie, tutte accomunate in un’obsolescenza, ritenute ferri vecchi di cui non avere neppure contezza storica.

Il pensiero espresso da Basaglia era ricco di una tensione utopica, di quella carica di cui parlava Calvino, di quella necessità di ingaggiarsi con la realtà per modificarla: le Utopie concrete basagliane. Provo a riassumerle.

L’UTOPIA UMANISTA.  Un termine che sembra datato e fuori moda anche citarlo è Umanesimo, una parola antica, da libri di storia del Rinascimento o di filosofia esistenziale della metà dello scorso secolo. Eppure quale miglior termine per definire un’attività che ha a che fare con le declinazioni dell’umano nella sua componente legata al dolore e alla sofferenza? L’uomo al centro: non i recettori, non le diagnosi, non i contenitori ma le persone. Da qui la necessità di non equivocare riducendo la lotta al manicomio al solo gesto umanitario con il rischio di privilegiarne un’accezione caritatevole e non politica.

L’UTOPIA INTEGRATIVA.  Nella legge del 1978 compare una tensione utopica verso l’accettazione della inesorabile interdipendenza tra Ragione e Follia, un correttivo al cartesianesimo espulsivo che ha fatto della deraison il contrario e non il complemento della raison. La spinta all’accettazione della follia come possibilità dell’umano non remota o degna di essere respinta e reclusa per garantire lo statuto di una ragione protetta dalla sua possibile negazione non è solo alla base del dispositivo segregante manicomiale, ma ha risvolti sociali, antropologici, psicologici. Un discorso non troppo distante dal faticoso processo di cura che mira all’integrazione, a porre rimedio a meccanismi scissionali che irrigidiscono in polarità incompatibili il bene e il male, l’aggressività e la tenerezza, l’odio e l’amore.

L’UTOPIA INCLUSIVA. Partiamo dalla messa a fuoco dei meccanismi dell’esclusione, per notare come abbiamo assistito nel tempo a un’obsolescenza dei termini, ad esempio quello di inclusione che rimandava a un sociale ricomposto in grado di convivere con la/le diversità: il processo di revisionismo semantico delle parole ha smontato e depotenziato qualsiasi progettualità in tal senso ricacciandola nel banale, nel retorico, nel già sentito con  un effetto di normalizzazione e il disinnesco  del potenziale conoscitivo ed esperienziale e di vitale pratica sociale.

L’UTOPIA PARTECIPATIVA. Il progetto di coinvolgimento della popolazione, delle persone, nella gestione della loro salute parte dalla consapevolezza, dalla responsabilizzazione, da una politicizzazione di base delle pratiche di salute e di prevenzione. Un obiettivo riconosciuto da Basaglia stesso come lontano dalla sensibilità degli italiani ma che negli anni ’70 e ’80 ha dato luogo a straordinari risultati in sanità pubblica e non solo in ambito psichiatrico. Almeno fin quando i processi di individualizzazione ed atomizzazione e la delega tecnicistica agli esperti ne hanno sancito il drammatico ridimensionamento.

L’UTOPIA PEDAGOGICA.  La celebre affermazione di Basaglia secondo cui la deistituzionalizzazione “è una rivoluzione silenziosa che si combatte giorno per giorno con l’obiettivo di cambiare la testa delle persone” (Basaglia, 2000, p. 149) rimanda a una straordinaria utopia pedagogica che non ha perso incisività, anche di fronte all’irrisolvibile paradosso di prospettare un processo che non riguardasse solo il luogo istituzionale per antonomasia, il manicomio, ma che intercettasse tutte le altre e future soluzioni istituzionalizzanti, ovvero meccaniche, non individualizzate, non specifiche delle singole situazioni di sofferenza individuale, familiare e gruppale.

L’UTOPIA ISTITUZIONALE. Questa rimanda, non diversamente da quanto citato in precedenza, al binomio deistituire/istituire. Anche in questo caso ci troviamo di fronte al funanbolico paradosso per cui “l’istituzione è contemporaneamente negata e gestita, la malattia è contemporaneamente messa tra parentesi e curata, l’atto terapeutico viene contemporaneamente rifiutato e agito” (Basaglia, 1968, p. 373)

L’UTOPIA POLITICA. Infine il ricorso alla categoria del politico per comprendere il potere, la società, i rapporti di forza, la miseria materiale e umana. Basaglia in questo è consapevole della impossibile rivoluzione ma non è disposto a rinunciare a smontare e criticare, decostruire diremmo oggi, i meccanismi di produzione di desoggettivazione, di esercizio del potere e della violenza, a partire da quella della diagnosi fino a quella sfacciata della contenzione meccanica. Un orizzonte che rimanda al politico e che di esso si assume tutto il carico che una pretesa scientificità apolitica della psichiatria aveva, ed ha, occultato.

Chiuderei queste brevi note affermando che, per molte vie, ci siamo dimenticati che il confronto con la follia richiede un’utopia, richiede un nessun-luogo verso cui tendere perché il luogo della follia è saturo almeno quanto quello della ragione. Di una necessaria utopia continuiamo ad avere bisogno, purché sia legata a doppio filo alla realtà:

“…viviamo nell’ideologia perché vi siamo immersi, siamo costretti a vivere nella realtà dei supermarket, del cinema, dei congressi, delle strade, nella realtà che ci è imposta ogni giorno, ma è questa realtà che vogliamo trasformare, e  quando si trasforma la realtà tenendo presente la soggettività di tutti, facciamo dell’utopia, entriamo nell’utopia, l’utopia diventa il vero reale, la prefigurazione di una realtà”. (Basaglia, 2000, p. 195).

Antonello D’Elia, Psichiatra, Psicoterapeuta, Presidente Società Italiana di Psichiatria Democratica

 

 

 

Bibliografia essenziale

Basaglia, F. (1954), “Su alcuni aspetti della moderna psicoterapia: analisi fenomenologica dell’ ‘incontro’ ”. In Basaglia Scritti I, (1981) (a cura di F. Ongaro Basaglia), Einaudi, Torino, pp. 32-54.

Basaglia, F., (1982),”L’Utopia della realtà”. In Basaglia. Scritti II, (1982) (a cura di F. Ongaro Basaglia), Einaudi, Torino, pp. 339-348.

Basaglia, F. (1968), (a cura di), L’istituzione negata, Einaudi, Torino.

Basaglia, F. (2000), Conferenze Brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Benasayag, M., Schmit, G. (2004),  L’epoca delle passioni tristi. Tr. it. Feltrinelli, Milano

Calvino, I. (1974), “Quale utopia?”, in AA.VV., Utopia rivisitata, Bompiani, Milano.

Castel, F, Castel, R., Lowell, A. (1979), La sociétè psychiatrique avancée. Le model américain, Grasset, Paris.

Galli, P.F. (1986), “Psicoterapia, formazione e specialismo”. In Minguzzi G.F. (1986) (a cura di), Il divano e la panca. Psicoterapia tra privato e pubblico. Franco Angeli, Milano, pp. 242-245.

Pirella, A. (1984), “Introduzione”, in Rossi, D., Pirella, A. Marzi, V., Vivere fuori, La casa Usher, Firenze, pp. 4-13.

 

fonte: https://www.psicoanalisiesociale.it/utopia-e-dimenticanza-in-psicoanalisi/

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