RESTARE TERAPEUTI, ANCHE DI FRONTE AL MALE. di Francesco Colizzi

L’omicidio della collega Barbara Capovani ha ferito me, come tutti coloro che operano nel campo immenso della salute mentale, richiamando anche la dolorosa memoria dell’uccisione dell’amica e collega Paola Labriola, avvenuta a Bari dieci anni fa, e costringendoci tutti a volgere nuovamente lo sguardo al lato più oscuro e inquietante della condizione umana. Scrivo perciò sotto un denso gravame emotivo, che tento di chiarire con quel tanto di sapere scientifico ed umano che posso spremere dai miei studi e dalla mia esperienza.
Condivido i dubbi, i timori e le proteste di chi fa uno sforzo enorme per affrontare le tante forme di disagio e di dolore mentale, per migliorare almeno la qualità della vita di pazienti e familiari, sottoponendo la propria salute mentale a tensioni ed angosce che possono lasciare segni duraturi.
La questione della sicurezza nei servizi sanitari è una allarmante realtà, in particolare in psichiatria e nei pronto-soccorso: non si può lavorare serenamente, rispondendo con la tempestività e l’impegno che sono spesso richiesti, col minimo di personale, senza protezione, esposti a mille richieste che non sono tutte solo di cura ma nascono anche da svariati tipi di disagio sociale.

Comprendo la reazione sociale di cordoglio, mista a rabbia ed angoscia. E’ però pericoloso semplificare una vicenda che mette in discussione tanti aspetti della vita umana, tanti saperi e tante istituzioni. Innanzitutto, etichettare la sofferenza mentale, che in Italia colpisce seriamente almeno un milione di persone l’anno, come “incomprensibile follia” o peggio “pericolosità sociale” vuol dire apporre un marchio emarginante, uno stigma, ad una sofferenza che può essere compresa e che gran parte degli esseri umani incontrerà nel corso della sua vita. In secondo luogo, riferirsi ai manicomi e agli ospedali psichiatrici giudiziari, vero obbrobrio antiterapeutico del passato, come a possibili soluzioni, vuol dire non conoscere la storia ed il funzionamento di tali istituzioni totali e non comprendere il grande passo di civiltà che invece si è compiuto in Italia con la loro chiusura, sostituita da una vasta rete territoriale ed ospedaliera di servizi ben più avanzati, anche se non ancora pienamente rispondenti al grande bisogno di promozione, prevenzione, cura e riabilitazione esistente.

Quando poi si affronta il tema inquietante della violenza da parte di persone sofferenti di disturbi mentali, non si sa o si dimentica che essa non è mediamente superiore a quella presente nel resto della popolazione e pertanto quando esplode essa viene erroneamente percepita come fosse un rischio molto più diffuso e a noi vicino.

Occorre affrontare tutte le diverse dimensioni del dolore e della patologia mentale se vogliamo impedire i corto circuiti tra il nostro approccio di ascolto e di accoglienza, che è per sua natura nonviolento, e il fondo violento della nostra vita cosiddetta civile, che a volte contribuisce a creare la psicopatologia e spesso la esaspera, anziché attenuarla, con il fondo paranoico dei complottismi e dei rifiuti della scienza. Occorrerà, nella vicenda specifica, accertare eventuali responsabilità, carenze, omissioni che, dai livelli clinici a quelli sociali e giudiziari, possono aver impedito i possibili interventi preventivi. Ma non avendo gli elementi per entrare nel merito, non è corretto avanzare commenti che poi, nel perdurare di un troppo basso livello di cultura della salute mentale, non farebbe altro che assommarsi a quelle reazioni emotive di tante persone e delle stesse istituzioni che risultano distorsive e provocano solo sentimenti di paura, di rabbia e di vendetta nelle comunità.
Va invece detto ad alta voce che ora non si tratta di rassicurare la gente, di promettere soluzioni organizzative, lasciando poi che resti scandalosamente bassa l’attenzione alla salute mentale e che le risorse ad essa destinate, anche con il PNRR, continuino ad essere del tutto inadeguate. Dobbiamo gridare che sono almeno due decenni che l’Organizzazione mondiale della sanità invita, inascoltata, i governi, le istituzioni e chiunque abbia potere decisionale, a considerare la salute mentale come una priorità.

E infine, oltre tutto questo, noi psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, terapisti della riabilitazione psichiatrica, cosa dovremmo fare? Cambiare il nostro sguardo umanistico? Non credere più alla bellezza, faticosa quanto vogliamo, a volte tragica, del diventare persone? E credere invece, anche noi, allo stereotipo della pericolosità di ogni malato mentale? Militarizzare i servizi per la salute mentale? Tornare alle vecchie e sempre seduttive logiche della segregazione e dell’esclusione, magari oggi dorate e mitigate dai nuovi psicofarmaci? A quel punto tradiremmo noi stessi. E tanto varrebbe cambiare mestiere.
Abbiamo perso Barbara, una collega, una madre, una bella persona, e non possiamo farla resuscitare.
Dovremmo anche offuscare il senso, già così sfuggente, del nostro proporci come argine, sia pure fragile, sia pure precario, alle più tremende vertigini della mente? La tentazione di molti operatori e professionisti della salute mentale di fare anche solo un passo indietro è forte perché non siamo degli eroi.
Quei colpi di martello hanno dilaniato anche il corpo del sogno che ci muove, hanno squarciato l’ordito, già così precario, dei rapporti di cura reciproca, di condivisione della nostra condizione di fragilità. E’ utile allora ricordare il finale de Le città invisibili di Calvino, che ci esorta ad imparare a riconoscere tutto ciò che non è inferno sulla Terra, a difenderlo, a farlo durare.
Allora, nessun passo indietro.

Dobbiamo restare fedeli al senso profondo del nostro mestiere.
Il nostro impegno, adesso e sempre, dev’essere quello di conservare il sorriso di Barbara Capovani, come quello lasciatoci dieci anni fa da Paola Labriola a Bari, di confermare la loro fiducia nell’umano, nelle persone.

Dobbiamo mantenere l’apertura al dono e alla gratuità anche di fronte al male.

Dobbiamo restare terapeuti.

fonte: https://www.facebook.com/francesco.colizzi.3?locale=it_IT

Francesco Colizzi
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